Ci sono ancora speranze per i Dem americani?
I Democratici stanno vivendo un difficile momento e non sanno se andare al centro o a sinistra in ottica futura. Ma nel frattempo le elezioni locali mostrano segnali incoraggianti.
Il momento negativo dei Democratici
Donald Trump è un presidente abbastanza impopolare. Il suo tasso di approvazione è decisamente più basso di quello che potevano vantare i suoi predecessori, compreso Joe Biden, a questo punto della presidenza. In questi mesi, del resto, il mandato del tycoon è stato tutt’altro che canonico: alcune cose, come la linea dura sull’immigrazione, riscontrano un buon gradimento nella popolazione, mentre altre (come i licenziamenti di massa del governo federale) hanno sollevato più di una perplessità. Nonostante questo, però, c’è chi incontra il favore degli americani meno dell’attuale inquilino della Casa Bianca, ovvero il Partito Democratico.
Secondo un sondaggio pubblicato qualche mese fa da Quinnipiac Poll, i Dem sono minimi storici in termini di popolarità, con il 57% degli elettori registrati che ha un'opinione sfavorevole. Questo è il dato più alto mai registrato da quando l’istituto ha iniziato a porre questa domanda nel 2008. Al contrario, il Partito Repubblicano ha registrato un incremento della propria immagine, con il 43% degli elettori che ne ha un'opinione favorevole, il valore più alto mai segnato.
Come ha sottolineato Ezra Klein sul New York Times, buona parte di questo giudizio è dovuto all’incapacità del Partito di far fronte a una serie di problemi, sia su scala nazionale che a livello locale. L’aumento del costo della vita, la crisi abitativa nelle città governate dai Democratici e la difficoltà di realizzare infrastrutture cruciali, come il fallimentare progetto dell’alta velocità in California, hanno minato la fiducia degli elettori. In questi anni, insomma, non c’è stata la capacità di tradurre le vittorie elettorali in politiche efficaci per migliorare la qualità della vita. Questo ha alimentato l’esodo verso stati governati dai Repubblicani e ha rafforzato la percezione che il GOP sia più capace di gestire l’economia, contribuendo alla vittoria di Trump nel 2024.
Il tutto, in ogni caso, si inserisce in un quadro già di per sé sfavorevole. Diversi sondaggi stanno mostrando come i giovani americani siano più conservatori rispetto al passato, e l’emigrazione che sta colpendo le città spopolandole è sicuramente un altro punto negativo. Individuare in maniera chiara i fattori che hanno portato a questa crisi non è semplice e si lega in ogni caso al dibattito in corso sul futuro del partito.
Un partito più moderato o liberal?
Le due principali posizioni nel dibattito interno ai Democratici riguardano, come da tempo, la direzione da intraprendere: assumere una linea più moderata o spostarsi a sinistra per riconnettersi con la base lavoratrice. Esistono valide ragioni per sostenere la prima opzione: alcuni sondaggi indicano che gli elettori preferiscono una visione meno radicale, e i candidati moderati hanno ottenuto risultati migliori nelle ultime elezioni rispetto ai progressisti.
Lo scorso mese, un gruppo di membri dello staff e di funzionari eletti del Partito Democratico si è riunito in un resort sul Potomac per affrontare le difficoltà del partito, esprimendo particolare frustrazione verso l’ala sinistra. Secondo un documento redatto dal gruppo Third Way e ottenuto da POLITICO, i moderati ritengono che il partito sia eccessivamente influenzato da test di purezza ideologica e dall’azione sproporzionata di gruppi e staffer progressisti. Uno dei punti chiave della discussione è stata la necessità di ridurre tale influenza, costruendo un’infrastruttura più centrista, contrastando le pressioni della sinistra radicale e rifiutando forum e questionari che impongano rigidi criteri ideologici.
Tuttavia, oggi l’opposizione più energica all’amministrazione proviene dall’ala progressista, guidata in particolare da Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, che stanno raccogliendo un ampio seguito anche in stati più conservatori. Questo fenomeno riflette un’altra realtà emersa dai sondaggi: la base democratica chiede una posizione più netta contro il governo in carica. Sebbene queste due tendenze siano spesso in conflitto, è plausibile che la soluzione si trovi nel mezzo. Un’opposizione più decisa alla presidenza in carica potrebbe rivelarsi vantaggiosa, mentre alcune priorità politiche, come la riforma sanitaria, restano ampiamente condivise da entrambe le anime del partito.
Il vero problema dei Democratici, però, non risiede tanto nelle politiche adottate, quanto nella loro credibilità su temi fondamentali per gli elettori, primo fra tutti l’economia, fattore determinante nella vittoria di Trump. L’aumento del costo della vita e delle abitazioni nelle città governate dai Democratici ha aggravato il malcontento, mentre sul fronte dell’immigrazione, nonostante Biden abbia adottato toni più duri nell’ultima fase del suo mandato, molti elettori continuano a guardare con favore alle posizioni repubblicane.
Non a caso, nel dibattito è stato citato Jason Crow, deputato del Colorado che da anni ottiene successi in un’area contesa tra i due partiti. Crow sostiene che il problema principale dei Democratici non sia legato alle loro politiche, che restano popolari, ma piuttosto a questioni culturali e identitarie. Il partito deve riformulare il proprio messaggio per riconnettersi con gli elettori, smettendo di difendere lo status quo e tornando a puntare sulla riforma del governo. A suo avviso, la frustrazione popolare per l’inefficienza delle istituzioni è un fattore chiave dietro il successo di iniziative come il "Dipartimento dell’Efficienza del Governo" proposto da Elon Musk. Per riconquistare la fiducia della popolazione, il Partito Democratico dovrebbe concentrarsi su politiche concrete per migliorare la vita quotidiana delle persone, ma anche su un linguaggio più efficace e su rappresentanti in grado di trasmettere quel messaggio in modo credibile.
Negli ultimi anni, inoltre, c'è il tema delle identity politics, la cui percezione tra l’elettorato americano si è evoluta in modo complesso e spesso contraddittorio. Se da un lato molte persone riconoscono l’importanza della lotta per l’uguaglianza e il riconoscimento dei diritti civili, dall’altro si sta diffondendo la sensazione che un’enfasi eccessiva su queste questioni possa risultare divisiva e poco efficace nel risolvere problemi concreti.
Per una parte significativa dell’elettorato, specialmente tra le classi lavoratrici e le comunità ispaniche e afroamericane, il discorso sulle identity politics sembra scollegato dalle loro priorità quotidiane, come il costo della vita, la sicurezza e le opportunità economiche. In questo contesto, le politiche basate su una forte categorizzazione identitaria possono essere percepite come un fattore che frammenta la società invece di unificarla. Alcuni temi, in particolar modo quelli legati ad alcuni diritti delle persone trans (si pensi alla possibilità di partecipare alle competizioni sportivi nella categoria differente dal sesso biologico) sono molto impopolari e potrebbero rappresentare le prime dalle quali parte dei Dem potrebbe allontanarsi.
Ma… dalle urne può arrivare un segnale di speranza
Guardare solamente i sondaggi, però, rischia di essere fuorviante. Come sottolinea G. Eliott Morris nella sua newsletter, infatti, ci sono alcuni fattori che suggeriscono come il ciclo politico attuale possa assomigliare a quello che ha portato nel 2018 i Dem a stravincere le midterm, per tornare poi alla Casa Bianca due anni dopo. Nel sottolineare questo aspetto va fatta una doverosa premessa: fare previsioni sul futuro è qualcosa di impossibile, a maggior ragione su un arco di tempo medio-lungo. Ciò che si può analizzare al momento sono solo quei piccoli segnali che permettono di monitorare il sentimento del paese.
In queste settimane, del resto, abbiamo raccontato più volte come alcuni esponenti Repubblicani abbiano dovuto fronteggiare una base particolarmente arrabbiata per i tagli federali. Queste proteste hanno riguardato diverse parti del paese, da stati che generalmente votano più a sinistra ad altri maggiormente conservatori, ma da sole possono dire poco. Anche se l’elettorato di un partito non è pienamente soddisfatta dell’operato del suo presidente, non per questo decide di votare per la fazione opposta. Donald Trump, inoltre, nel suo campo resta sicuramente popolare, ma questi piccoli segnali sono comunque fattori da non sottovalutare.
L’altro aspetto importante arriva dalle urne. Chi ricorda il periodo precedente alle midterm del 2018, saprà sicuramente che la vittoria Democratica fu preceduta da una serie di successi locali che preannunciavano una crescita del partito. Allo stesso tempo alcuni trionfi particolarmente roboanti dei Repubblicani (come quello nella contesa per il governatore della Virginia nel 2021) avevano fatto intuire fin da subito come il vento stesse cambiando. Anche qui, doverosa premessa: una singola elezione con bassa affluenza di per sé dice molto poco. Più utile è invece guardare il trend nel lungo periodo: se situazioni simili si verificano in diverse elezioni, in parti differenti del paese, allora si potrà ipotizzare un mutamento d’opinione.
In questo puzzle, però, i Democratici il primo tassello l’hanno inserito. Il Democratico James Malone, sindaco di East Petersburg, è riuscito a battere il Repubblicano Josh Parsons nell’elezione speciale per il 36° distretto del Senato della Pennsylvania, un'area storicamente conservatrice. In questo distretto, Trump aveva sconfitto Kamala Harris di 15 punti nel 2024, e aveva superato Biden di 17 punti nel 2020. Non si tratta di un'area che ha recentemente oscillato verso i Democratici: è un territorio tradizionalmente rosso. Ancor più importante, inoltre, sarà un’elezione speciale che si terrà nella giornata di martedì.
Quel giorno, infatti, si terranno elezioni speciali in due distretti congressuali della Florida per sostituire i Repubblicani Matt Gaetz e Michael Waltz. Sebbene queste aree siano storicamente roccaforti del GOP, i Democratici sperano che i buoni risultati nelle raccolte fondi possano rendere le sfide più competitive rispetto alle elezioni generali di cinque mesi fa. Queste elezioni non cambieranno il controllo della Camera dei Rappresentanti, ma potrebbero dare un po’ di respiro ai Repubblicani, che attualmente detengono 218 seggi, il minimo per una maggioranza. Visti i numeri risicati a disposizione del GOP, un successo sarebbe vitale per portare avanti l’agenda legislativa di Trump.
In questo discorso, è interessante soffermarsi soprattutto sul sesto distretto, quello che riguarda il seggio di Waltz. Si tratta di una roccaforte repubblicana, dove Donald Trump ha vinto con ben 30 punti di margine, eppure la partita sembra clamorosamente in bilico. Il Democratico John Weil è andato decisamente meglio rispetto al Repubblicano Randy Fine nella raccolta fondi e i sondaggi parlano addirittura di uno scarto di appena quattro punti. Sebbene è complesso pensare a una vittoria del candidato Dem, ma anche una sfida serrata sarebbe un risultato davvero notevole.
Nel periodo di voto anticipato, conclusosi ieri, hanno votato 100.955 elettori, tra cui 38.113 registrati democratici (pari al 37,7%), 47.414 registrati repubblicani (47%) e 15.428 indipendenti (15,3%). Il vantaggio dei registrati repubblicani, di poco superiore ai 9 punti, al momento è molto inferiore rispetto ai 24 punti di vantaggio che ha il GOP nelle registrazioni al voto in questo distretto. Nonostante i repubblicani possano recuperare terreno all’Election Day di martedì, i registrati democratici al momento hanno un tasso di affluenza maggiore di 9 punti rispetto alla controparte, segno di un maggior entusiasmo e di maggiori motivazioni al voto. Questo renderà la sfida molto più incerta rispetto allo standard estremamente rosso di questo distretto.
Non a caso nel GOP si è diffusa una certa preoccupazione legata alla possibilità di un seggio cruciale alla Camera, con Trump e Musk che sono divenuti molto più attivi in campagna elettorale. In previsione di una eventuale sconfitta, inoltre, è stato chiesto alla deputata Elise Stefanik un passo indietro rispetto alla sua nomina come Ambasciatrice presso le Nazioni Unite. Quest’ultima avrebbe dovuto lasciare il suo seggio, rischiando di ridurre ulteriormente la maggioranza. Un buon risultato Dem, insomma, da solo significa poco, ma sarebbe comunque una sorpresa che andrà poi tenuta a mente e contestualizzata insieme agli altri risultati che arriveranno.
Le altre notizie della settimana
Il vicepresidente J.D. Vance ha scatenato polemiche con una visita a sorpresa in Groenlandia, dove ha criticato la gestione danese della sicurezza e suggerito un futuro sotto la protezione diretta degli Stati Uniti. Pur evitando riferimenti a un’annessione forzata, Vance ha parlato della necessità di un nuovo “ombrello di sicurezza” per l’isola, senza dettagli concreti.
La Danimarca ha respinto le accuse, sottolineando la cooperazione storica con gli USA, mentre la Groenlandia ha avviato negoziati per ridefinire i rapporti con Copenaghen. Le dichiarazioni di Vance hanno scatenato proteste a Nuuk e Copenaghen, mentre Trump ha rilanciato la retorica sull’importanza strategica dell’isola.
Donald Trump ha seriamente considerato il licenziamento del Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Waltz, dopo che quest’ultimo ha accidentalmente rivelato informazioni militari riservate al direttore di The Atlantic, Jeffrey Goldberg, aggiungendolo per errore a una chat su Signal. Nonostante in pubblico Trump abbia difeso Waltz definendolo “un brav’uomo”, in privato si è detto profondamente irritato, più che per la fuga di notizie in sé, per il fatto che Waltz avesse contatti con un giornalista a lui ostile. La crisi ha portato a un incontro d’emergenza alla Casa Bianca, con il vicepresidente J.D. Vance e i principali consiglieri, ma al momento Trump sembra intenzionato a mantenere Waltz nel suo ruolo per evitare instabilità all’interno dell’amministrazione.
La posizione di Waltz era già considerata fragile prima dell’incidente, a causa delle sue posizioni aggressive sulla politica estera, spesso in contrasto con la linea presidenziale. A complicare la situazione è riemerso un vecchio video del 2016 in cui criticava Trump, alimentando il malcontento tra i fedelissimi del presidente. Tuttavia, il sostegno di Vance e il desiderio di evitare scosse improvvise nella squadra di sicurezza nazionale sembrano aver garantito la sua permanenza. L’episodio sottolinea le tensioni all’interno dell’amministrazione, dove la fedeltà personale a Trump si intreccia con le necessità di una gestione stabile della sicurezza nazionale.Le tensioni tra Stati Uniti e Iran si intensificano dopo che Donald Trump ha minacciato “conseguenze gravi” se Teheran non accetterà un nuovo accordo sul nucleare. L’avvertimento segue la risposta iraniana a una lettera che il presidente americano aveva inviato tre settimane fa alla Guida Suprema Ali Khamenei, nella quale minacciava un’azione militare entro due mesi in assenza di progressi diplomatici. L’Oman è emerso come possibile mediatore, sostituendo gli Emirati Arabi Uniti nel ruolo di intermediario, e ha trasmesso la replica iraniana alla Casa Bianca.
Teheran si è detta disponibile solo a negoziati indiretti e ha ribadito la propria diffidenza nei confronti di Washington, ricordando il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo del 2015. Nel frattempo, secondo l’AIEA, l’Iran ha accumulato scorte di uranio arricchito sufficienti per sei testate nucleari, aumentando la pressione sull’amministrazione Trump affinché trovi una soluzione rapida, sia diplomatica che militare.
La Corte d’Appello di Washington D.C. ha confermato il blocco temporaneo imposto all’utilizzo dell’Alien Enemies Act da parte dell’amministrazione Trump per espellere cittadini venezuelani sospettati di far parte di gang criminali. La legge, risalente al 1798 e concepita per situazioni di guerra, è stata ritenuta di dubbia applicabilità al contesto attuale, sollevando interrogativi sui poteri presidenziali in materia di immigrazione. Il giudice distrettuale James Boasberg aveva già vietato i rimpatri forzati, accusando l’amministrazione di un uso improprio della norma. Tuttavia, due voli erano partiti prima che l’ordinanza fosse formalmente emessa, un dettaglio che il governo sostiene legittimi le espulsioni.
La decisione della Corte evidenzia la tensione tra l’autorità esecutiva e il controllo giudiziario, con implicazioni più ampie sulla gestione dell’immigrazione. Mentre il governo giustifica la misura per ragioni di sicurezza nazionale, le organizzazioni per i diritti civili mettono in guardia contro il rischio di abusi. Il caso potrebbe arrivare alla Corte Suprema, diventando un precedente chiave per definire i limiti dell’autorità presidenziale e l’uso di leggi storiche in contesti contemporanei.