Come Trump sta bloccando l'immigrazione
Milioni di irregolari, liste d'attesa decennali e una politica oscillante tra aperture selettive e rimpatri di massa
Dall’arrivo dei padri pellegrini ai raid della Border Patrol nei quartieri di Los Angeles: la cittadinanza americana è stata fin dalle origini una promessa contesa, un confine mobile tra inclusione e chiusura. Nata dall’intreccio di jus soli e giuramento civico, si è trasformata nel tempo in un campo di battaglia politico, dove ogni amministrazione ha ridefinito chi può entrare, chi può restare e chi ha diritto di appartenere. Oggi, sotto la seconda presidenza Trump, quella promessa sembra dissolversi in una guerra permanente contro l’immigrazione irregolare e contro l’idea stessa che la cittadinanza sia un diritto e non un privilegio da amministrare.
Una breve panoramica storica
Il tema della cittadinanza accompagna la storia americana sin dalle origini. Fin dalla fondazione, gli Stati Uniti l’hanno definita attraverso tre principi: lo jus soli, che garantisce la cittadinanza a chi nasce sul suolo americano; lo jus sanguinis, che la trasmette ai figli di cittadini; e il giuramento di fedeltà, con cui l’immigrato si impegna civicamente verso la nuova patria. Dopo la Rivoluzione, la cittadinanza divenne una combinazione di nascita e consenso politico, ma il Naturalization Act del 1790 la riservò ai soli “bianchi liberi di buon carattere”, introducendo una gerarchia razziale destinata a segnare a lungo la storia americana. Nell’Ottocento, le grandi ondate migratorie provenienti da Germania, Irlanda e altri Paesi europei alimentarono il nativismo, con movimenti come i Know Nothings che chiedevano restrizioni più severe. Allo stesso tempo, la domanda di manodopera e i nuovi accordi internazionali ampliarono le rotte migratorie, anche se il Chinese Exclusion Act del 1882 segnò la prima grande chiusura etnica, mentre la Corte Suprema consolidava il “potere plenario” del Congresso in materia di immigrazione.
Tra il 1910 e il 1930 gli Stati Uniti entrarono nell’era delle restrizioni. Le nuove leggi introdussero test di alfabetizzazione e quote nazionali che favorivano l’Europa settentrionale, culminando nel National Origins Act del 1924. La Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale accentuarono le chiusure: furono avviati rimpatri di massa, come la “repatriation” dei messicani, e l’internamento di cittadini di origine giapponese e tedesca. Anche la politica verso i rifugiati restò rigida fino al Displaced Persons Act del 1948, che segnò una timida apertura dopo l’Olocausto. Nel dopoguerra, il Bracero Program (1942–1964) autorizzò l’ingresso temporaneo di milioni di lavoratori agricoli messicani, ma la sua fine alimentò nuovi flussi irregolari. Negli anni Sessanta, il clima del Movimento per i Diritti Civili e il rifiuto delle teorie eugenetiche portarono a una svolta con l’Immigration and Nationality Act del 1965, che abolì le quote discriminatorie e introdusse un sistema basato sul ricongiungimento familiare, modificando profondamente il volto dell’immigrazione americana.
Negli ultimi decenni, la politica migratoria ha oscillato tra aperture e chiusure. Il Refugee Act del 1980 regolò l’accoglienza dei rifugiati, mentre l’IRCA del 1986 concesse un’amnistia a milioni di immigrati senza documenti, senza tuttavia creare canali legali per i lavoratori meno qualificati. Negli anni Novanta, il Diversity Visa Program e la liberalizzazione dei visti per professionisti specializzati favorirono l’immigrazione qualificata, ma la crescita dei flussi irregolari spinse verso un irrigidimento normativo e controlli più severi. Dopo l’11 settembre, la sicurezza divenne la priorità assoluta. L’amministrazione Obama cercò un equilibrio tra protezione e inclusione, introducendo nel 2012 il DACA, che offrì tutela ai giovani arrivati da bambini, i cosiddetti Dreamers. Pur con oltre 2,7 milioni di rimpatri, Obama tentò di modernizzare il sistema, bilanciando, non senza contraddizioni, controllo dei confini, diritti umani e necessità economiche.
Come funziona oggi l’immigrazione legale
Il sistema di immigrazione statunitense si basa su quattro pilastri fondamentali: ricongiungimento familiare, ammissione di lavoratori qualificati, protezione umanitaria e promozione della diversità. Questi principi sono sanciti dall’Immigration and Nationality Act (INA), la legge che regola l’intera materia migratoria. Ogni anno gli Stati Uniti possono concedere fino a 675.000 visti permanenti, cui si aggiungono i permessi illimitati destinati a coniugi, figli minori e genitori di cittadini americani. Accanto alle vie permanenti esistono i visti temporanei, concessi per studio, turismo o lavoro stagionale, e i programmi di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo, che non prevedono limiti numerici ma sono sottoposti a criteri di selezione molto rigidi.
Il ricongiungimento familiare resta la colonna portante del sistema, rappresentando nel 2022 il 58% di tutti i nuovi residenti permanenti (Lawful Permanent Residents, LPR). I cittadini statunitensi possono far entrare nel Paese coniugi, figli minori e genitori senza restrizioni annuali, mentre altre categorie — come figli adulti o fratelli — rientrano in un sistema di quote che prevede almeno 226.000 visti all’anno. A questo si aggiungono i limiti per Paese, che impediscono a una singola nazione di superare il 7% del totale annuo, generando attese molto lunghe: oltre 3,7 milioni di persone sono attualmente in lista per una green card familiare. Ogni sponsor deve inoltre dimostrare di poter sostenere economicamente il familiare, firmando una dichiarazione di sostegno che lo rende legalmente responsabile del suo mantenimento.
La seconda grande via d’accesso è quella occupazionale, che prevede fino a 140.000 visti permanenti all’anno. Le cinque categorie principali spaziano da persone con “abilità straordinarie” e manager di multinazionali a lavoratori qualificati, religiosi o investitori che creano posti di lavoro negli Stati Uniti. I familiari dei titolari di visto vengono conteggiati nel tetto complessivo, riducendo di fatto i posti disponibili per motivi di lavoro. Accanto a questi esistono oltre 20 categorie di visti temporanei, come gli H-1B per professionisti specializzati (con un tetto di 85.000 l’anno), gli H-2A per lavoratori agricoli stagionali e gli L-1 per trasferimenti interni alle aziende. In diversi casi, chi possiede un visto temporaneo può poi richiedere la residenza permanente, se sponsorizzato da un datore di lavoro o da un familiare.
Infine, il sistema include canali speciali e forme di protezione umanitaria. Il Refugee Admissions Program accoglie ogni anno un numero fissato dal Presidente e dal Congresso (125.000 persone nel 2024), mentre chi è già sul territorio può chiedere asilo politico senza limiti quantitativi. Il Diversity Visa Program assegna 55.000 green card tramite sorteggio a cittadini di Paesi con bassa emigrazione verso gli Stati Uniti, favorendo in particolare Africa ed Europa dell’Est. A questi si aggiungono i programmi di protezione temporanea (TPS, DED) per chi non può rientrare nel proprio Paese a causa di guerre o disastri naturali, e il DACA, destinato ai giovani arrivati da minori. Tutti questi strumenti formano un sistema complesso ma coerente, costruito per bilanciare esigenze economiche, responsabilità umanitarie e principi di equità democratica.
L’immigrazione illegale
L’immigrazione irregolare negli Stati Uniti non si limita ai passaggi clandestini di confine, ma comprende una varietà complessa di situazioni. Il caso più noto resta l’attraversamento illegale della frontiera meridionale, spesso organizzato da reti di trafficanti di esseri umani, i cosiddetti coyotes, che chiedono somme elevate per far entrare i migranti dal Messico, o da gruppi criminali internazionali come gli snakeheads, attivi nei flussi provenienti dalla Cina. Altri migranti riescono a entrare senza essere intercettati, diventando i cosiddetti “gotaways” — persone individuate dai sensori o dalle telecamere di frontiera ma mai fermate dagli agenti. Tuttavia, una parte significativa dell’immigrazione irregolare non nasce dall’ingresso clandestino, ma dal fenomeno del “visa overstay”: individui entrati legalmente con un visto turistico o di lavoro che restano nel Paese oltre il periodo consentito. Secondo le stime del Pew Research Center, tra 4 e 5,5 milioni di immigrati irregolari — fino al 48% del totale — rientrano in questa categoria. Gli overstayers tendono a essere più istruiti e con situazioni economiche più stabili rispetto a chi attraversa il confine illegalmente, ma restano comunque soggetti a espulsione e a divieti di reingresso fino a dieci anni. In entrambe le situazioni, la vita negli Stati Uniti per chi non ha documenti è segnata da precarietà e sfruttamento. Circa 8 milioni di lavoratori senza status legale — pari al 5% della forza lavoro — sono impiegati nei settori più vulnerabili, come agricoltura, edilizia, servizi domestici e ristorazione, dove bassi salari e scarse tutele alimentano abusi e lavoro nero.
L’andamento dell’immigrazione irregolare ha seguito fasi alterne, influenzate dalle crisi economiche e dalle scelte politiche. Come evidenzia il Migration Policy Institute, dopo la forte espansione tra anni Novanta e Duemila, con un picco di oltre 12 milioni di persone senza status regolare alla vigilia della Grande Recessione, la popolazione irregolare si è stabilizzata intorno agli 11 milioni, grazie al rallentamento dei flussi, al rafforzamento dei controlli di frontiera e alle espulsioni interne decise dalle amministrazioni Bush e Obama. Ma questa apparente stabilità nasconde un profondo mutamento: i migranti messicani, un tempo oltre il 60% del totale, oggi rappresentano circa la metà, mentre sono aumentati i flussi provenienti da America Centrale, Sud America e Asia. Sempre più spesso, inoltre, l’irregolarità non deriva da un ingresso clandestino, ma da un visto scaduto: un fenomeno che coinvolge in particolare cittadini asiatici arrivati legalmente per motivi di studio o lavoro.
Accanto a chi vive del tutto privo di protezione, cresce la quota di immigrati in una condizione ibrida, sospesa tra legalità e precarietà. Nel 2018 circa 1,7 milioni di persone disponevano di un permesso temporaneo di lavoro o di protezione umanitaria, come il DACA, il Temporary Protected Status (TPS) o un’autorizzazione legata a una richiesta d’asilo. La maggior parte di questa popolazione si concentra in California, Texas, Florida e New York, dove costituisce una componente stabile del tessuto economico e sociale, spesso con figli nati negli Stati Uniti e dunque cittadini americani. Secondo dati più recenti del Pew Research Center, però, la tendenza si è invertita: nel 2023 gli immigrati senza documenti hanno raggiunto circa 14 milioni, il livello più alto mai registrato. Questo aumento è stato trainato da nuovi flussi dall’America Latina e da una crescente zona grigia di presenze temporanee e irregolari, che rende sempre più labile il confine tra permanenza legale e informale, trasformando l’immigrazione irregolare in un fenomeno strutturale del sistema americano.
Le politiche della prima amministrazione Trump e di Biden
Nel suo primo mandato, Donald Trump ha trasformato l’immigrazione in una prova di forza nazionale. Ha promesso muro, rimpatri di massa e “tolleranza zero”, presentando spesso gli immigrati senza documenti come una minaccia criminale, nonostante le ricerche mostrino tassi di criminalità più bassi rispetto ai nativi. Al di là degli slogan, ha cercato soprattutto di chiudere i rubinetti dell’ingresso legale: ha provato a tagliare drasticamente le green card, a cancellare protezioni temporanee come il TPS per centinaia di migliaia di persone arrivate da Paesi colpiti da guerre o disastri, a limitare il lavoro per coniugi di titolari di visto e per richiedenti asilo. Ha abbassato l’accoglienza dei rifugiati al minimo storico moderno, ha rallentato le naturalizzazioni e reso più caro chiedere la cittadinanza. Sul confine sud ha spinto al massimo la deterrenza: più arresti interni, anche di persone senza precedenti penali seri, e soprattutto la separazione forzata di migliaia di famiglie migranti come messaggio politico. In parallelo ha imposto e ampliato i “travel ban” verso vari Paesi, per motivi dichiarati di sicurezza nazionale, e ha perfino tentato di inserire la domanda sulla cittadinanza nel censimento, mossa che avrebbe inciso sulla rappresentanza politica degli stati con più immigrati. L’idea di fondo era semplice e brutale: meno ingressi legali, più paura del confine.
Joe Biden è partito dichiarando il contrario: normalizzare. Appena entrato alla Casa Bianca ha fermato il muro, eliminato i travel ban, protetto i giovani del DACA e presentato un disegno di legge che avrebbe dato una via verso lo status legale a milioni di persone già negli Stati Uniti. Ha anche cambiato le priorità di espulsione, chiedendo alle autorità di concentrare gli sforzi su chi è considerato una minaccia alla sicurezza, non sul lavoratore senza documenti che vive lì da anni con figli cittadini americani. Ma la realtà del confine lo ha portato in una zona grigia molto diversa dal racconto iniziale. Sotto Biden gli arrivi irregolari al confine sud hanno toccato livelli record, e la Casa Bianca ha reagito combinando aperture e strette: da un lato corridoi umanitari controllati, programmi di ingresso temporaneo per persone in fuga da crisi (Cuba, Haiti, Venezuela, Nicaragua), uso dell’app CBP One per prenotare l’asilo senza doversi lanciare nel deserto; dall’altro espulsioni rapide, invio di truppe al confine, nuove limitazioni all’asilo e perfino la possibilità di chiudere temporaneamente la frontiera quando gli ingressi superano una certa soglia giornaliera. Il risultato è che Biden ha smontato molta della retorica di Trump, ma ha finito per governare l’immigrazione con una miscela di canali legali selettivi e controlli più duri sul campo, perché ormai il tema non è più solo “chi entra”, ma “come lo gestiamo senza far saltare il sistema”.
La svolta dell’amministrazione Trump
Nel secondo mandato di Donald Trump, la politica migratoria statunitense ha subito un inasprimento senza precedenti, tanto nei toni quanto negli strumenti. Il presidente ha ripreso a parlare di “invasione” come minaccia diretta alla sovranità nazionale, trasformando l’immigrazione irregolare in una questione di sicurezza interna. Con una serie di ordini esecutivi, ha sospeso l’ingresso dei migranti al confine sud, bloccato l’accesso all’asilo per chi attraversa irregolarmente e ampliato l’uso dell’“expedited removal”, ossia l’espulsione rapida senza passare per un giudice. Ciò che prima era limitato alle aree di frontiera e ai primi giorni dopo l’ingresso è stato esteso all’intero territorio: chi non può dimostrare due anni di presenza continua o un ingresso regolare può essere rimosso direttamente. Un tribunale federale ha poi dichiarato illegittima la misura, accusando la Casa Bianca di voler creare un sistema parallelo al di fuori del controllo del Congresso, ma ciò che contava per il presidente era soprattutto il segnale politico.
In parallelo, l’amministrazione ha riscritto le regole dell’accesso legale. Trump ha riattivato in forma rigida la politica del “Remain in Mexico”, obbligando chi richiede asilo a restare oltreconfine fino alla conclusione della procedura. Ha poi disattivato l’app CBP One, introdotta da Biden per prenotare legalmente un appuntamento di ispezione, cancellando migliaia di richieste già registrate. Allo stesso tempo, sono stati eliminati i programmi temporanei di ingresso per motivi umanitari o per nazionalità specifiche, sostituiti da valutazioni caso per caso riservate solo a chi dimostra “necessità urgente” o un valore economico per il Paese. L’obiettivo, più che gestire i flussi, è scoraggiare le partenze, inviando un messaggio netto: non venite, non entrerete. Inoltre la vecchia pratica del “catch and release”, che prevedeva il rilascio in attesa di udienza, è stata sostituita dal “catch and detain”, la detenzione obbligatoria fino al rimpatrio. Sono aumentati i centri di detenzione e le risorse per le espulsioni accelerate; stati e autorità locali sono stati autorizzati ad agire come braccio operativo del governo federale, mentre chi aiuta gli irregolari rischia incriminazioni. Le agenzie federali hanno ricevuto l’ordine di incrociare dati fiscali e sanitari per individuare chi riceve benefici pubblici senza titolo.
La ridefinizione dell’appartenenza è stata altrettanto radicale. Con l’ordine esecutivo 14160, Trump ha tentato di limitare lo jus soli del Quattordicesimo Emendamento, sostenendo che nascere negli Stati Uniti non basti se i genitori non sono cittadini o residenti permanenti. È un gesto di forte valore simbolico (i tribunali l’hanno subito stoppato), volto a spostare l’idea di cittadinanza da diritto di nascita a privilegio amministrato. Nello stesso spirito, il Laken Riley Act impone la detenzione obbligatoria anche per chi è accusato di reati minori e consente agli Stati di citare in giudizio Washington per eventuali danni legati alla mancata detenzione di irregolari. All’estremo opposto, la “Trump Gold Card” offre la residenza permanente — e un percorso verso la cittadinanza — a chi può investire cinque milioni di dollari, senza gli obblighi occupazionali previsti dai vecchi visti per investitori. In questo modo, la cittadinanza diventa qualcosa che si può comprare o perdere, più che un diritto garantito.
Un altro fronte decisivo è stato l’attacco alle “sanctuary cities”, le città e gli Stati che rifiutano di collaborare con le autorità federali sull’immigrazione. Fin dai primi mesi, il Dipartimento di Giustizia ha pubblicato liste nere e avviato oltre quindici cause contro amministrazioni democratiche, accusandole di violare la legge federale. Solo Louisville e il Nevada hanno ceduto alle pressioni; altrove, sindaci e governatori hanno difeso la propria autonomia invocando il Decimo Emendamento e il principio per cui Washington non può obbligare le autorità locali a far rispettare leggi federali. I tribunali hanno bloccato i tagli ai fondi, ma la battaglia resta aperta e carica di significato politico: per Trump, le città santuario rappresentano un tradimento dell’autorità federale; per i loro amministratori, resistere è un modo per difendere il federalismo e i diritti civili. Dentro questo scenario, la politica dei raid è diventata la manifestazione più visibile del nuovo corso.
Il 7 gennaio, mentre il Congresso certificava la vittoria elettorale di Trump, la Border Patrol arrestava 78 lavoratori agricoli in California. Pochi giorni dopo, ICE lanciava operazioni simultanee in nove grandi città, fermando oltre 500 persone in una notte, tra cui cittadini statunitensi e veterani. Nei mesi seguenti, la campagna si è estesa a scuole, ospedali e quartieri popolari, spesso con agenti in assetto antisommossa e l’uso di granate stordenti. Alcuni blitz, inizialmente descritti come azioni contro gang criminali, si sono rivelati semplici feste di famiglia. A Los Angeles e Chicago, in estate, si sono visti elicotteri e reparti della Guardia Nazionale schierati nei centri urbani. Per la Casa Bianca era una “guerra ai cartelli”; per i sindaci democratici, un’occupazione federale che violava l’autonomia locale. In questa America polarizzata, l’irregolarità non è più una condizione amministrativa, ma un marchio politico: un pretesto per giustificare arresti, rimpatri e la presenza sempre più pervasiva dello Stato nella vita quotidiana.
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