I deputati Repubblicani abbracciano il trumpismo definitivamente.
La sostituzione di Liz Cheney, i tentativi di trovare un compromesso sulle infrastrutture, la questione israelo-palestinese e le altre notizie della settimana.
Esautorata Liz Cheney, il G.O.P. della Camera sceglie Elise Stefanik
La newsletter della scorsa settimana si era aperta con una fotografia dell’attuale situazione all’interno del Partito Repubblicano, dove le divisioni manifestatesi nel corso degli ultimi mesi hanno portato alla prima vera frattura. Quella che sette giorni fa avevamo presentato come semplice ipotesi si è infatti trasformata in realtà.
Liz Cheney è stata esautorata dal suo ruolo di numero 3 del partito alla Camera dei Rappresentanti, in una scelta che evidenzia ancora una volta quanto forte sia il controllo da parte di Donald Trump sul G.O.P. Il tutto si è svolto in una rapida riunione a porte chiuse durata solamente 15 minuti.
Per ricercare le motivazioni di questo gesto, bisogna tornare indietro nel tempo fino ai giorni successivi allo scorso 6 gennaio, quando l’assalto al Congresso nel giorno in cui sarebbe stata certificata la vittoria elettorale di Joe Biden mise in serio dubbio la leadership di Donald Trump, facendo emergere una fronda critica anche all’interno del suo stesso partito.
Nonostante le dichiarazioni fatte da numerosi membri del Congresso, sono stati in pochi gli eletti del G.O.P. che hanno poi votato la mozione d’impeachment nei confronti del tycoon: fra questi Liz Cheney, la cui posizione è apparsa subito particolarmente delicata visto il suo ruolo istituzionale.
Fin da subito sono emerse pesanti critiche nei suoi confronti, ed il percorso volto a rimuoverla dalla sua carica è ora andato a buon fine. Anzitutto c’è da chiarire come alla base di tutto non ci siano questioni programmatiche: durante il mandato di Trump, Liz Cheney è stata assolutamente fedele al tycoon, mostrandosi in linea con le sue politiche.
Sono state proprio le violente accuse contro il comportamento assunto dall’ex presidente in relazione alle accuse di brogli elettorali ad aver fatto alzato la tensione fra le fila repubblicane. Poco dopo il voto, Liz Cheney ha affermato: “Farò il possibile per fa sì che Trump non possa più mettere piede nelle zone intorno all’ufficio ovale, abbiamo visto tutti i danni che ha provocato con il suo linguaggio”, insistendo anche sui pericoli generati alla democrazia dal tycoon.
Nonostante questo, però, appare evidente come la sua voce rischi di rimanere isolata in un partito che di fatto ha scelto anche ufficialmente di sposare la linea aggressiva di Donald Trump, considerando il suo supporto fondamentale per ottenere la maggioranza almeno alla Camera (essendo ampiamente alla portata, più difficile riconquistare il controllo del Senato) nelle prossime elezioni di mid-term.
Anche per questo un gruppo di Repubblicani composto principalmente da ex ambasciatori, membri del governo e del Congresso, sembra pronto a minacciare la rottura con G.O.P. e la fondazione di un nuovo partito nel caso in cui non dovesse esserci un allontanamento dalle posizioni di Donald Trump che, al momento, appare comunque difficile.
Nel mentre, in ogni caso, Elise Marie Stefanik, deputata dello stato di New York, è stata eletta in sostituzione di Liz Cheney con 134 voti a favore e con 46 contrari. Una scelta che mostra ancora una volta come al centro della contesa non ci siano questioni prettamente politiche, dato che la neo-eletta negli ultimi anni si è spesso allontanata dalle politiche di Donald Trump per assumere una linea più moderata.
A suo favore, però, gioca la grinta con cui si è battuta per difendere l’ex presidente, rilanciando le accuse di frodi elettorali durante la campagna elettorale del 2020.
Segnali di collaborazione fra democratici e repubblicani
Fin dall’inizio del suo mandato alla Casa Bianca, Joe Biden ha espresso la volontà di cercare compromessi con i repubblicani, per ristabilire maggiore fiducia nella democrazia. Questo percorso, però, è stato fin da subito minato da numerose difficoltà sorte lungo la strada: la crescente radicalizzazione dell’elettorato americano e le profonde divergenze ideologiche tra le due fazioni hanno reso particolarmente complesso ogni tentativo di mediazione.
Nonostante le difficoltà del caso, però, nell’ultima settimana è stato fatto un passo avanti importante in questa direzione. Joe Biden ha infatti tenuto un incontro con i numeri uno repubblicani al Senato ed alla Camera, Mitch McConnell e Kevin McCarthy, mettendo al centro soprattutto il piano infrastrutturale.
Su quest’ultimo tema i democratici hanno sempre dovuto fronteggiare l’ostilità repubblicana riguardante l’ingente piano di spesa, con il G.O.P. che ha provato a rispondere con una controproposta meno ingente, che riguardava esclusivamente le infrastrutture fisiche (come strade e ponti), e non investimenti su energia verde, case ed altri temi centrali nel programma di Biden.
L’incontro è durato due ore, ed al termine il presidente ha parlato di “segnali incoraggianti per un possibile accordo bipartisan”. Ottimismo è stato espresso anche da alcuni senatori repubblicani, come Shelley Moore Capito (R-W.Va.), che da tempo sta provando a stimolare un dialogo fra le parti in causa. Anche lo stesso Mitch McConnel si è detto fiducioso sulle possibilità che l’accordo vada in porto.
Nonostante i segnali incoraggianti, però, le parti restano comunque discretamente lontane, soprattutto sui modi in cui il piano andrebbe finanziato. La proposta iniziale di Biden prevedeva un aumento delle tasse per le persone ad alto reddito e le grandi corporation, fortemente avversato dal Partito Repubblicano. Si è provato a mediare proponendo di aumentare accise autostradali, ma in casa democratica si è sollevato qualche mugugno, dato che questa scelta lederebbe anche gli americani a basso reddito (Biden aveva promesso di non alzare le imposte per chi guadagna meno di 400.000 dollari annui).
Le prossime settimane, in ogni caso, saranno importanti per capire se un accordo possa essere trovato o meno. Nel frattempo, però, entrambi i partiti hanno raggiunto un accordo bipartisan per la creazione di una commissione indipendente volta ad indagare sull’assalto al Congresso dello scorso 6 gennaio.
Le difficoltà di Biden nella questione israeliano-palestinese
Nelle sue prime settimane alla Casa Bianca, Joe Biden ha dedicato poca attenzione a quella che è la questione arabo-palestinese, soprattutto in virtù della convinzione che siano poche le possibilità per giungere ad un compromesso fra i due stati.
Le contingenze del momento, con la crescita della tensione nell’aria ed i ripetuti attacchi e risposte provenienti da ambo le parti, hanno costretto il presidente ad intervenire. Alcune delle sue dichiarazioni, in cui aveva affermato la legittima difesa di Israele, hanno suscitato la reazione dell’ala progressista del suo partito, che ha chiesto un maggiore intervento per fermare la violenza del governo israeliano.
In linea generale, la generazione più giovane di eletti democratici appare più incline a sposare la questione palestinese rispetto a quella a cui appartiene lo stesso Joe Biden. Il presidente, in ogni caso, è finito sotto accusa anche da parte dei repubblicani, che hanno usato la situazione per attaccarlo.
Donald Trump, che durante il suo mandato aveva proposto un accordo di pace fortemente filo-isrealiano, ha infatti attaccato Biden affermando che l’escalation di violenza sia frutto della sua debolezza nell’intervenire a riguardo della questione.


Le altre notizie della settimana
Il CDC ha annunciato che chi è completamente vaccinato contro il Covid-19 potrà smettere di usare la mascherina, ad eccezione di alcuni luoghi come mezzi pubblici ed ospedali. La scelta, però, non è vincolante e l’ultima parola in questione spetta alle autorità locali.
Il procuratore generale Merrick B. Garland e il segretario per la Sicurezza Interna Alejandro N. Mayorkas hanno identificato quella proveniente "estremisti violenti di matrice razziale o etnica" e "in particolare coloro che sostengono la superiorità della razza bianca" come la più grande minaccia interna che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare.
Si tratta di un radicale cambio rispetto al passato, date le continue minimizzazioni della minaccia avvenute sotto la presidenza Trump.
Più di 120 ex generali ed ammiragli delle forze armate americane hanno firmato una lettera in cui mettono in dubbio la legittimità del risultato elettorale del 2020, facendo riferimento alle teorie cospirative sui brogli elettorali, e la salute mentale dell’attuale presidente Joe Biden.
L’ultimo dato sull’inflazione dei prezzi al consumo rilasciato oggi vede un aumento del 4,2% su base annuale, sulla base del Consumer Price Index (CPI). Si tratta del dato più elevato dal settembre 2008, che aumenta le preoccupazioni su una possibile nuova ondata di inflazione per via delle politiche espansive.
Secondo Axios, molti consumatori sono preoccupati dell’aumento dei prezzi ed hanno deciso di rivedere le proprie spese di conseguenza. Ma buona parte degli economisti (e la Fed) ritiene ancora che questo aumento dell’inflazione sia solo temporaneo e non strutturale.
La richiesta di fallimento presentata dalla National Rifle Association, la principale lobby di armi, è stata respinta da un giudice di New York.
La NRA stava cercando di dichiarare fallimento per poter spostare la propria sede in Texas ed evitare così l'indagine di New York sulla corruzione interna alla lobby. Ma i 12 giorni di udienze in tribunale per il caso di fallimento li hanno messi ancora più in difficoltà con il giudice che ha stabilito che "la NRA sta usando questo caso di fallimento per affrontare un problema di applicazione delle normative, non finanziario".
Sarà Glenn Youngkin il candidato repubblicano per le elezioni del governatore della Virginia, in programma quest’anno. Si tratta di un ricco business-man, che ha saputo unire le due anime del partito repubblicano nella sua figura.
Sfiderà con ogni probabilità l’ex governatore Terry McAuliffe (in Virginia ci si può ricandidare per più mandati, ma non consecutivamente), che ha già iniziato ad attaccare soprattutto per i suoi piani di rafforzamento dei lavoratori e dei sindacati. Il candidato democratico appare in ogni caso favorito, ma nelle ultime settimane sono emersi alcuni segnali che fanno pensare ad una sfida più equilibrata del previsto.
Per questa settimana è tutto. Grazie di averci letto. Se la newsletter ti è piaciuta condividila.
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