Il caso Epstein continua a perseguitare Trump
I nuovi file sollevano più domande che risposte, mentre la rete di contatti di Epstein torna sotto i riflettori.
Per Donald Trump il nome di Jeffrey Epstein è tornato a essere un problema politico. Mentre la Camera ha forzato la declassificazione dei file e nuove email chiamano in causa l’ex presidente, nel GOP si consuma una frattura sempre più evidente tra la base che chiede chiarezza e la leadership che tenta di frenare l’ondata.
Chi era Epstein e cosa sono gli “Epstein files”?
Jeffrey Epstein, finanziere newyorkese con profonde connessioni tra Wall Street, il mondo accademico e l’élite politica internazionale, è diventato il simbolo di uno scandalo che intreccia potere, sesso, denaro e impunità sistemica. Il suo primo arresto risale al 2006, quando venne accusato in Florida di aver abusato di numerose minorenni reclutate nella sua villa di Palm Beach. Nonostante la gravità dei fatti, nel 2008 ottenne un patteggiamento sorprendentemente favorevole, negoziato con il procuratore federale Alexander Acosta: un accordo segreto (non rivelato alle vittime, in violazione del Crime Victims’ Rights Act) che gli garantì solo 13 mesi di detenzione in una “work release” con permessi giornalieri, consentendogli di uscire dal carcere sei giorni su sette. Per anni, il suo caso sembrò sostanzialmente archiviato.
La situazione cambiò nel luglio 2019, quando Epstein venne arrestato nuovamente con l’accusa di traffico sessuale di decine di minorenni, alcune delle quali appena quattordicenni. Le indagini federali rivelarono che la sua compagna, Ghislaine Maxwell, fungeva da intermediaria e reclutatrice: individuava ragazze vulnerabili, prometteva denaro, opportunità o protezione, e le introduceva nel circuito di sfruttamento. Maxwell è stata condannata nel 2021 a 20 anni. Poche settimane dopo l’arresto, Epstein venne trovato morto nella sua cella del Metropolitan Correctional Center di Manhattan. La versione ufficiale parla di suicidio, ma una serie di anomalie, telecamere malfunzionanti, guardie addormentate o assenti, procedure di controllo non rispettate, ha immediatamente generato dubbi e fornito terreno fertile a ricostruzioni alternative.
Ad alimentare le domande è anche la vasta rete di contatti costruita da Epstein nel corso degli anni: capi di Stato, miliardari, reali europei, magnati della tecnologia, personalità accademiche e politiche. Nell’orbita comparivano, con differenti livelli di coinvolgimento personale, Donald Trump, Bill Clinton e il principe Andrea. È in questo contesto che si parla degli “Epstein files”: un insieme di documenti dell’FBI, del Dipartimento di Giustizia e della magistratura federale, parzialmente desecretati durante l’amministrazione Trump e successivamente attraverso richieste FOIA, che includono log di voli, liste di contatti, agende, materiale audiovisivo sequestrato nelle varie perquisizioni, e trascrizioni relative ai procedimenti civili e penali. Le autorità federali sostengono che non esista una “lista clienti” ufficiale capace di provare direttamente il coinvolgimento criminale di figure di alto profilo. Tuttavia, la gestione opaca di molti documenti, pagine oscurate, lunghi rinvii, richieste FOIA disattese, ha alimentato un clima di sospetto e sfiducia che persiste tuttora.
Negli ultimi anni, il caso Epstein è diventato il paradigma delle teorie del complotto moderne: un miliardario che sfugge alla giustizia per oltre un decennio, una morte inspiegabile in un carcere federale considerato “ad alta sorveglianza”, e una rete globale di amici potenti che nessuna autorità sembra voler sfiorare. Questa combinazione ha permesso a movimenti come QAnon di trasformare la vicenda in una narrazione simbolica: l’élite globalista corrotta e pedofila che cospira contro il “popolo”. All’interno di questo immaginario, Epstein è stato trasformato in un personaggio-chiave, una prova vivente (e poi morta) della corruzione del potere. Nel dibattito politico statunitense la storia si è poi polarizzata: la destra radicale punta il dito contro Bill Clinton; il campo progressista evidenzia invece i rapporti di lunga data tra Trump ed Epstein. Nel mezzo, rimane una verità frammentaria, ostaggio di documenti incompleti e indagini ancora oggi difficili da ricostruire.
Il rapporto tra Epstein e Donald Trump
Epstein e Donald Trump si frequentarono nei circoli mondani di New York e Palm Beach per più di un decennio. Negli anni ’90 Epstein partecipava assiduamente agli eventi del Mar-a-Lago Club, di proprietà di Trump, e i due furono fotografati spesso insieme. In una nota intervista del 2002 al New York Magazine, Trump definì Epstein “un tipo fantastico” e osservò che “ama le belle donne quanto me, e molte di loro sono piuttosto giovani”. La loro relazione si incrinò nei primi anni 2000, probabilmente a causa di una disputa immobiliare. Trump sostenne in seguito di aver bandito Epstein da Mar-a-Lago per “comportamento inappropriato”, ma la documentazione disponibile è frammentaria e non del tutto verificabile.
È invece confermato che Trump abbia viaggiato più volte sul jet privato di Epstein, il cosiddetto “Lolita Express”: secondo i flight logs resi pubblici durante i procedimenti civili, almeno sette voli sono registrati a suo nome. Non ci sono però prove che abbia mai visitato Little St. James, la controversa isola delle Virgin Islands legata agli abusi. Questa miscela di frequentazione evidente, prese di distanza tardive e lacune documentali ha alimentato l’idea che il rapporto tra i due fosse più complesso di quanto Trump ammetta pubblicamente.
Durante la sua prima presidenza, e ora nuovamente in campagna elettorale, Trump ha promesso più volte di voler rendere pubblici tutti i documenti relativi a Epstein. Una promessa che ha trovato riscontro nelle aspettative del movimento MAGA, convinto che Epstein sia stato ucciso in cella per evitare rivelazioni compromettenti. Tuttavia, la declassificazione ottenuta finora è stata frammentaria e insufficiente. Anche settori istituzionali del Partito repubblicano hanno chiesto trasparenza: il presidente della Camera, Mike Johnson, in un’intervista del 15 luglio al podcaster conservatore Benny Johnson, ha dichiarato che “tutto dovrebbe essere messo sul tavolo”, difendendo al contempo Pam Bondi ma suggerendo che la base elettorale non è soddisfatta dell’attuale gestione.
Perché negli ultimi giorni il caso è tornato alla ribalta?
Negli ultimissimi giorni il caso Epstein è tornato al centro del dibattito pubblico statunitense per una combinazione piuttosto esplosiva di fattori: una mossa procedurale in Congresso che ha forzato la mano alla leadership repubblicana, la pubblicazione di nuove email in cui Jeffrey Epstein parla direttamente di Donald Trump e, sullo sfondo, la fine del più lungo shutdown della storia americana, che ha tolto ogni alibi politico al rinvio.
Sul piano istituzionale, la svolta arriva il 12 novembre. Alla Camera, i deputati Thomas Massie (repubblicano) e Ro Khanna (democratico) utilizzano uno strumento parlamentare raro, il discharge petition, per aggirare lo stallo imposto dallo Speaker Mike Johnson e costringerlo a mettere ai voti l’Epstein Files Transparency Act: un disegno di legge che obbligherebbe il Dipartimento di Giustizia a rendere pubblici, entro 30 giorni, tutti i materiali non classificati su Epstein e Ghislaine Maxwell, inclusi log dei voli, documenti interni del DoJ e dell’FBI, comunicazioni sulle indagini e atti relativi alla morte in carcere. Per settimane la petizione resta bloccata a 217 firme, una in meno del quorum necessario. Il numero decisivo arriva solo quando viene finalmente insediata la nuova deputata democratica Adelita Grijalva, eletta da 50 giorni ma tenuta fuori dall’aula per tutta la durata dello shutdown. Appena dopo aver giuratio, Grijalva firma la petizione e rende inevitabile un voto in plenaria; a quel punto Johnson, di fronte al fatto compiuto, annuncia che la Camera voterà già la settimana successiva, anticipando persino le tempistiche minime previste dal regolamento.
Questo sblocco istituzionale coincide con la chiusura del maxi-shutdown federale. Nello stesso 12 novembre in cui il Congresso approva il pacchetto di spesa per riaprire il governo dopo 43 giorni di paralisi, Trump firma la legge di finanziamento e invita i repubblicani, in un post su Truth Social, a concentrarsi “solo sulla riapertura del governo”, sostenendo che “non ci devono essere distrazioni su Epstein o altro”. Paradossalmente, però, proprio la fine dello shutdown elimina la giustificazione dell’emergenza permanente e permette a una coalizione trasversale di deputati, democratici e repubblicani, di rimettere il dossier Epstein al centro dell’agenda. All’interno del GOP si prevede una vera e propria emorragia di voti a favore della trasparenza: stime interne parlano di decine di defezioni, forse oltre un centinaio, segno di quanto il tema divida il fronte trumpiano e di quanto una parte dell’elettorato conservatore si senta tradita dalla gestione opaca dei file.
In parallelo, sul versante mediatico, la scintilla immediata arriva dalla pubblicazione di una nuova tranche di oltre 20.000 email provenienti dall’archivio di Epstein, consegnate alla Commissione di Oversight della Camera in risposta a una serie di citazioni in giudizio. I democratici della Commissione, guidati da Robert Garcia, scelgono di rendere pubblici per primi tre scambi particolarmente sensibili, tutti in cui Epstein parla di Trump. In una mail del 2011 a Ghislaine Maxwell, Epstein scrive che “il cane che non ha ancora abbaiato è Trump” e aggiunge che una delle sue vittime “ha passato ore a casa mia con lui”, notando come il suo nome non sia mai emerso. In un altro scambio del 2019 con lo scrittore Michael Wolff, Epstein afferma che “ovviamente [Trump] sapeva delle ragazze, perché ha chiesto a Ghislaine di smettere”. In un terzo scambio, alla vigilia di un dibattito delle primarie repubblicane del 2015, Epstein chiede a Wolff come Trump dovrebbe rispondere a un’eventuale domanda televisiva sul loro rapporto; Wolff lo invita a lasciare che sia Trump a “impiccarsi da solo”, ipotizzando che una smentita troppo netta possa diventare in futuro “moneta di scambio” contro di lui. Si tratta di affermazioni politicamente pesantissime, che suggeriscono come Epstein percepisse Trump come pienamente consapevole del contesto in cui si muoveva. Ma, dal punto di vista probatorio, restano pur sempre parole di Epstein, non ancora corroborate da elementi indipendenti.
I repubblicani della Commissione reagiscono pubblicando il resto del materiale, accusando i democratici di “cherry-picking” per danneggiare il presidente. Contestualmente rivelano che la vittima non nominata nelle email è Virginia Giuffre, una delle accusatrici più note di Epstein. È un dato non neutro: in una deposizione del 2016, Giuffre aveva infatti dichiarato di non aver mai visto Trump partecipare ad abusi su minori nella casa di Epstein, pur ammettendo che fosse stato presente nell’abitazione. La Casa Bianca, attraverso la portavoce Karoline Leavitt, parla di “email selezionate ad arte” per costruire una narrativa ostile e ribadisce la versione ufficiale: Trump avrebbe cacciato Epstein da Mar-a-Lago “decenni fa” per comportamenti inappropriati nei confronti delle dipendenti del club, tra cui la stessa Giuffre, e le domande sul caso sarebbero solo un diversivo per oscurare i “risultati storici” dell’amministrazione.
Su tutto questo pesa il memo del 7 luglio 2025 del Dipartimento di Giustizia, in cui si afferma che non esiste alcuna “lista clienti” incriminante e che non sarebbero emerse prove credibili di un sistema di ricatti ai danni di personalità di alto profilo. Quel documento, nato per chiudere la questione, ha invece acceso la rivolta di una parte della base MAGA, convinta di essere stata tradita proprio sul terreno della trasparenza. Ora, con il Congresso che si prepara a votare una legge pensata per limitare i margini di discrezionalità del Dipartimento di Giustizia e con nuove email che mettono in imbarazzo la Casa Bianca, il caso esplode di nuovo. Per provare a ribaltare la narrativa, Trump chiede pubblicamente al Dipartimento di Giustizia di indagare sui legami tra Epstein e alcuni esponenti democratici, a partire da Bill Clinton, presentando l’intero scandalo come una “trappola” e un “hoax” orchestrato contro di lui.
Il risultato è un cortocircuito politico perfetto: un presidente che aveva promesso di “dire tutta la verità” su Epstein e ora viene accusato di insabbiamento; un Congresso che, pur a maggioranza repubblicana, usa strumenti eccezionali per forzare la pubblicazione dei documenti; nuove email che alimentano i sospetti senza chiuderli; una base elettorale divisa tra fedeltà a Trump e richiesta di chiarezza. È esattamente questo intreccio – tra procedure parlamentari, leak mirati e scontro interno al Partito repubblicano – a spiegare perché, proprio adesso, il nome di Jeffrey Epstein è tornato al centro della scena.
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