Il Nobel che Trump sogna (e che non avrà)
Il presidente americano vorrebbe ricevere il Nobel per la Pace, ma è improbabile che succeda.
Da tempo Donald Trump non nasconde il suo desiderio di vedersi insignito del Premio Nobel per la Pace. Una volontà che è tornata con forza in questo 2025, quando, a margine di incontri internazionali a Washington e in Europa, il presidente ha ribadito davanti a giornalisti e alleati di essere convinto di meritare il riconoscimento, pur non aspettandosi di riceverlo mai.
“Non me lo daranno mai. Io lo merito, ma non me lo daranno mai”, ha dichiarato in occasione di un incontro con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Parole simili sono arrivate poche settimane più tardi, durante il summit con i leader ucraini ed europei: “Se guardate ai sei accordi che ho concluso quest’anno, erano tutti in guerra”. Il giorno successivo, correggendosi, aveva rivendicato di aver “chiuso sette guerre”, mentre la sua portavoce Karoline Leavitt ha iniziato a parlare apertamente di lui come del “presidente della pace”, sottolineando in più briefing che “è giunto il momento” di riconoscere con il Nobel il suo contributo.
Ma perché queste rivendicazioni? Da un lato in questo rientra indubbiamente il carattere senza dubbio particolare di Donald Trump, la sua voglia di apparire e di ricevere elogi. Dall'altro però, soprattutto nel dibattito sui media conservatori, c'è anche il senso di critica per una certa deriva che ha preso tale premio e la voglia di lanciare una provocazione: come sottolineano diversi analisti (ne ha parlato ad esempio l'opinionista di Fox News Van Hipp), il tycoon non lo meriterebbe meno di altri esponenti che ne sono stati insigniti. Inevitabilmente l'obiettivo polemico è spesso Barack Obama: ciò su cui battono i suoi alleati è che, guardando esclusivamente la questione militare le politiche trumpiane, anche se non sempre hanno condotto a dei risultati concreti, manifestano l'interesse attivo per far terminare dei conflitti, e questo non sarebbe così diverso da quanto accaduto proprio con il suo predecessore, premiato sulla base delle promesse lanciate nella sua presidenza.
Non è la prima volta che Trump insiste sul tema. Già nel suo primo mandato aveva sostenuto di essere stato ingiustamente escluso: nel 2019 raccontò che l’allora premier giapponese Shinzo Abe lo aveva persino candidato ufficialmente, dopo il summit con Kim Jong Un. Poco dopo, alla vigilia di un incontro con Imran Khan, si lamentò con la stampa dicendo che il riconoscimento non veniva assegnato in modo equo. Il tema tornò nel 2020, quando il premio andò al premier etiope Abiy Ahmed per l’accordo di pace con l’Eritrea. Trump rivendicò di aver avuto un ruolo nella mediazione e accusò il comitato di aver ignorato i suoi meriti. Negli anni successivi, fino alla rielezione del 2024, la polemica è rimasta un leitmotiv dei suoi discorsi: in comizio a Detroit arrivò persino a evocare Obama, sostenendo che se avesse avuto il suo nome il Nobel gli sarebbe stato tranquillamente assegnato.
Come viene assegnato il premio?
Chiunque può essere candidato al Nobel per la pace, ma non tutti possono proporre i nomi. A presentare le candidature, che si chiudono il 31 gennaio di ogni anno, possono essere solo figure specifiche: capi di Stato, membri di governi e parlamenti, ex vincitori del premio, professori universitari o personalità con ruoli equivalenti. È importante ricordare che la semplice candidatura non equivale a un riconoscimento ufficiale: il comitato stesso avverte che non va usata come titolo o legittimazione politica.
Una volta raccolte, le proposte passano nelle mani del Comitato norvegese per il Nobel, formato da cinque membri nominati dal Parlamento di Oslo. Il processo dura circa otto mesi e si articola in più fasi: prima viene creata una lista ristretta dei candidati “più interessanti e meritevoli”, poi esperti esterni e consulenti permanenti conducono ricerche approfondite sulla loro attività. Nel corso dell’anno, il comitato discute, riduce ulteriormente la rosa e infine vota. La decisione viene presa a maggioranza semplice, quindi non sempre all’unanimità: celebri le dimissioni di due membri nel 1973, quando il premio fu assegnato a Henry Kissinger per il cessate il fuoco in Vietnam, considerato troppo fragile.
Il numero di nomine cresce costantemente: dai 137 candidati del 1901 si è passati ai 286 del 2024 e ai 338 del 2025, divisi tra 244 individui e 94 organizzazioni. Il record rimane quello del 2016, con 376 candidature, anno in cui il riconoscimento andò al presidente colombiano Juan Manuel Santos per il suo tentativo di porre fine alla guerra civile nel Paese. Ogni ottobre, da Oslo, viene annunciato il vincitore, mentre i nomi dei candidati rimangono segreti per cinquant’anni.
Perché Trump dice di meritarlo e quali sono le guerre che avrebbe fatto finire?
Nel rivendicare la propria aspirazione al Nobel, Trump ha sottolineato di aver contribuito alla conclusione di sei o sette conflitti. L’affermazione, se da un lato mette in luce un tratto della sua politica estera – caratterizzata dal tentativo di favorire accordi di pace senza impegnare truppe sul terreno – dall’altro è almeno in parte propagandistica e problematica. Basti pensare all’intesa tra Armenia e Azerbaigian sulla questione del Nagorno-Karabakh: firmata a Washington con la sua mediazione, può essere annoverata tra i successi dell’amministrazione, ma gli osservatori sottolineano la fragilità della tregua e le persistenti tensioni etniche e territoriali. Analogo il caso dell’accordo tra Repubblica Democratica del Congo e Rwanda: un’intesa che pose fine a anni di conflitti e violenze, ma rapidamente indebolita dalle reciproche accuse di violazione del cessate il fuoco.
Trump annovera tra i suoi presunti successi anche conflitti controversi. È il caso della contrapposizione tra Israele e Iran, che si tradusse in un breve ma violento scontro armato con un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti: definire “pace” il cessate il fuoco che seguì ai bombardamenti americani appare, secondo molti osservatori, più un artificio retorico che un risultato concreto. Lo stesso vale per la disputa tra India e Pakistan sul Kashmir: Trump rivendicò di aver imposto la calma attraverso la pressione commerciale, ma Nuova Delhi negò qualsiasi forma di mediazione esterna, lasciando dubbi sull’effettiva portata del suo ruolo. Anche in altri casi la situazione è simile: risultati importanti, ma forse un trionfalismo che sembra esagerato. La controversia tra Egitto ed Etiopia sulla Grande Diga del Rinascimento non è mai degenerata in guerra e rimane tuttora irrisolta, mentre l’accordo economico tra Serbia e Kosovo del 2020 è stato fragile e parziale. Parlare di “fine della guerra” risulta quindi improprio: più che di soluzioni definitive, si tratta di tentativi di contenere tensioni profonde. In definitiva, la narrazione di Trump tende a trasformare mediazioni temporanee in vittorie geopolitiche, utili a costruire l’immagine di un presidente-pacificatore, ma lontane dalla realtà sul terreno.
Le altre notizie della settimana
Donald Trump ha proposto che il Partito Repubblicano organizzi una convention nazionale straordinaria prima delle elezioni di metà mandato del 2026, per motivare l’elettorato e rafforzare la maggioranza al Congresso. Anche i Democratici stanno discutendo l’ipotesi di un raduno simile, ma con meno consenso interno a causa dei costi.
La governatrice della Federal Reserve, Lisa Cook, ha fatto ricorso alla giustizia federale per opporsi al tentativo di Donald Trump di rimuoverla dal suo incarico, definito un atto “inedito e illegale”. La Casa Bianca sostiene invece che il presidente abbia agito nell’ambito dei suoi poteri per motivi “validi”, accusando Cook di aver ottenuto mutui a condizioni agevolate. La vicenda si inserisce nello scontro più ampio tra Trump e la Fed: il presidente punta a ridurre i tassi d’interesse e a sostituire i vertici con figure più allineate alla sua agenda. L’ex segretaria al Tesoro Janet Yellen ha denunciato il rischio che la banca centrale diventi una “marionetta” del potere politico, alimentando timori per l’indipendenza della Fed.
Trump ha firmato un decreto che impone a ogni Stato di creare unità speciali della Guardia nazionale pronte a intervenire rapidamente contro disordini interni, ampliando l’uso di uno strumento finora limitato a emergenze naturali o sanitarie. Washington e Los Angeles sono già state laboratorio di questa strategia: migliaia di militari hanno pattugliato le strade, spesso contro l’opposizione delle autorità locali.
La questione è dibattuta. Da un lato la Casa Bianca rivendica i risultati, con arresti e una momentanea diminuzione dei reati. Dall'altro ciò che sottolineano i critici è che il provvedimento, che aggira di fatto le restrizioni del Posse Comitatus Act, rischia di aprire la strada a un uso diretto e politico delle forze armate da parte del presidente. Trump ha inoltre minacciato di estendere l’iniziativa a città governate da democratici, come Chicago e New York, e ha rilanciato misure simboliche a forte impatto politico, dal carcere per il rogo della bandiera alla pena di morte obbligatoria per gli omicidi a Washington.
Trump e la direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard hanno avviato una vasta rimozione di alti funzionari nei servizi segreti, descritta da molti come una “purga di lealtà”. Tra i colpiti, una delle massime esperte di Russia della Cia, privata dell’abilitazione a materiale classificato pochi giorni dopo aver preparato i dossier per il vertice con Putin. Ex funzionari avvertono che la perdita di professionalità indipendenti, in particolare nel team russo, rischia di indebolire l’amministrazione nei negoziati sulla guerra in Ucraina.
Parallelamente, la Casa Bianca ha licenziato Susan Monarez, appena nominata direttrice dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc). Ufficialmente per “mancato allineamento” con l’agenda sanitaria di Trump e del ministro Robert Kennedy Jr., secondo i suoi legali in realtà per aver rifiutato direttive “non scientifiche”. Le dimissioni a catena di altri dirigenti dei Cdc segnalano una crisi interna, in un contesto di riforme vaccinali molto contestate dalla comunità scientifica.
Trump ha annunciato l’intenzione di rinominare il Dipartimento della Difesa “Dipartimento della Guerra”, ripristinando la denominazione storica abolita nel 1947 dall’amministrazione Truman. Secondo il presidente, l’attuale nome riflette “political correctness”, mentre quello originario rappresenterebbe meglio la forza militare americana. Anche il segretario alla Difesa Pete Hegseth sostiene il cambio, parlando di ritorno a una “cultura del guerriero”.
Trump ha revocato la protezione del Secret Service a Kamala Harris, cancellando l’estensione concessa da Biden oltre i sei mesi previsti per legge agli ex vicepresidenti. La decisione arriva a poche settimane dal tour di lancio del libro dell’ex vicepresidente e ha suscitato critiche da parte dei democratici californiani, che la considerano un atto politico vendicativo. Harris dovrà ora affidarsi a misure di sicurezza private, con costi stimati in milioni di dollari l’anno.