La pace di Trump?
Nel nostro approfondimento settimanale parliamo del piano di Trump per la pace e delle incognite che solleva
Il nuovo accordo di pace tra Israele e Palestina segna una delle più significative cesure nella lunga storia del conflitto mediorientale. Dopo mesi di intensi negoziati mediati dalla Casa Bianca, le parti hanno raggiunto un cessate il fuoco immediato, entrato in vigore venerdì, il giorno successivo all’approvazione ufficiale da parte del governo di Tel Aviv. Donald Trump ha descritto l’intesa come un “cessate il fuoco totale e verificabile”, che prevede la sospensione di tutte le operazioni militari — inclusi bombardamenti e artiglieria — e il congelamento delle linee di battaglia. Nelle ore successive all’annuncio, migliaia di palestinesi hanno iniziato a muoversi verso Gaza City, dichiarata “zona sicura” dalle autorità militari. Le immagini diffuse dalle principali testate internazionali mostrano lunghe colonne di famiglie in marcia lungo la costa, tra cumuli di macerie e palazzi sventrati, in un paesaggio che somiglia più a un esodo che a un ritorno.
Uno dei punti centrali dell’intesa riguarda il rilascio degli ostaggi ancora trattenuti a Gaza, che dovrebbe iniziare domani mattina. Secondo stime israeliane, circa venti persone sarebbero ancora in vita, mentre i corpi di venticinque altri saranno restituiti alle famiglie. In cambio, Israele ha accettato di liberare 250 prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo e altri 1.700 gazawi arrestati dall’inizio del conflitto, anche se la lista dei detenuti resta oggetto di verifica e discussione. Le operazioni di scambio seguiranno il protocollo già sperimentato nei precedenti rilasci: trasferimento alla Croce Rossa, accoglienza nella base di Re’im e successivo trasporto in elicottero verso gli ospedali militari. A Tel Aviv, nel corso di una grande manifestazione in Piazza degli Ostaggi, la folla ha accolto con applausi gli inviati americani Steve Witkoff e Jared Kushner, scandendo cori di “Thank you, Trump” e fischiando Benjamin Netanyahu, accusato di aver rallentato il processo di pace.
Copyright foto: account Instagram ufficiale Donald Trump
Sul fronte militare, il piano di tregua prevede un ritiro progressivo delle Forze di Difesa Israeliane fino a una linea che lasci a Israele il controllo del 53% dell’enclave. Una mappa diffusa dalla Casa Bianca illustra tre fasi: una prima riduzione immediata, seguita da due ulteriori che porteranno il controllo israeliano rispettivamente al 40% e al 15% del territorio. La fase finale manterrà un perimetro di sicurezza fino a quando Gaza non sarà considerata “libera da minacce terroristiche risorgenti”. L’inviato americano Steve Witkoff ha confermato il completamento della prima fase del ritiro, definendolo “un segnale concreto della serietà israeliana”. Tuttavia, secondo un reportage del New York Times, la devastazione nelle aree evacuate è “straziante”: i reporter descrivono una città ridotta in macerie, dove migliaia di persone tornano a piedi a Gaza City solo per scoprire “le rovine di ciò che era la loro vita”.
Sul piano politico, l’accordo istituisce un “comitato palestinese tecnocratico e apolitico” incaricato di amministrare Gaza, ponendo fine alla gestione diretta di Hamas. Questo organismo opererà sotto la supervisione di un “Consiglio di pace” presieduto da Trump, con un ruolo di coordinamento affidato all’ex premier britannico Tony Blair. L’obiettivo dichiarato è la trasformazione di Gaza in una “zona libera dal terrore e deradicalizzata”, preludio alla ricostruzione economica dell’enclave. Il piano include la creazione di una zona economica speciale, con tariffe preferenziali e incentivi per attrarre investimenti internazionali. Nessun palestinese sarà costretto a lasciare la Striscia, ma chi vorrà potrà farlo liberamente. È in questo quadro che, lunedì, Trump e il presidente egiziano al-Sisi presiederanno a Sharm el-Sheikh un vertice con oltre venti leader mondiali — tra cui Emmanuel Macron e Keir Starmer — per discutere la seconda fase del piano e il futuro assetto della regione.
La questione umanitaria rimane al centro del progetto. La Casa Bianca ha promesso un incremento massiccio degli aiuti: seicento camion al giorno carichi di viveri, medicinali e materiali da costruzione dovrebbero entrare a Gaza “senza interferenze”. Al momento, secondo la BBC, solo pochi convogli sono effettivamente passati dal valico di Rafah, e l’UNICEF denuncia “un volume di aiuti ancora troppo basso per la gravità della crisi”. Il sistema sanitario è al collasso: il 94% degli ospedali è danneggiato o distrutto, e la carestia resta una minaccia imminente. “Abbiamo finito una guerra e ne comincia un’altra”, ha dichiarato il direttore dell’ospedale Al-Shifa. Israele accusa Hamas di ostacolare gli aiuti e di utilizzare la crisi alimentare come strumento politico.
Infine, l’accordo prevede la creazione di una Forza internazionale di stabilizzazione temporanea incaricata di addestrare e sostenere le forze di polizia palestinesi, garantendo sicurezza e ordine durante la transizione. Questa forza, coordinata con Israele ed Egitto, avrà il compito di presidiare i confini e impedire il contrabbando di armi. Il documento chiarisce che Israele non occuperà né annetterà Gaza, ma si ritirerà gradualmente in base ai progressi della smilitarizzazione. È una clausola politica decisiva, che esclude apertamente l’annessione auspicata da alcune frange della destra israeliana e apre la strada a una nuova, fragile fase di stabilità nel cuore del Medio Oriente.
Le incognite sul futuro
Nonostante l’euforia diplomatica che ha accompagnato la firma dell’accordo, molti nodi restano irrisolti. Il testo reso pubblico non distingue in modo netto tra il cessate il fuoco attuale e le fasi successive del piano in venti punti elaborato dalla Casa Bianca. Le clausole effettivamente vincolanti non sono note, e la distanza tra dichiarazioni politiche e realtà operativa rimane ampia. A oggi, non esiste un documento ufficiale che separi la “fase uno” – quella del cessate il fuoco e dello scambio di prigionieri – dal resto del percorso che dovrebbe condurre a una pace stabile. Le incertezze si moltiplicano anche sul piano politico: mentre Israele rivendica la tregua come un successo militare e diplomatico, Hamas non ha mai confermato di accettare integralmente i punti centrali del piano, soprattutto quelli che prevedono la smilitarizzazione dell’enclave e la supervisione internazionale.
Il disarmo di Hamas è infatti la questione più delicata. Il piano americano prevede la “demilitarizzazione di Gaza sotto supervisione indipendente”, ma non indica né modalità né tempi, lasciando ampio margine d’interpretazione. Alti funzionari del movimento islamista hanno già chiarito che le armi “non sono oggetto di negoziazione” e che verranno cedute solo nel momento in cui sarà riconosciuto uno Stato palestinese. Questa posizione, condivisa anche da Osama Hamdan, sottolinea una frattura profonda che rischia di compromettere l’intero processo. La distruzione delle infrastrutture militari, comprese le reti di tunnel sotterranei che secondo fonti israeliane si estenderebbero per oltre 350 miglia, appare un obiettivo tecnicamente e politicamente difficile da raggiungere. Senza una chiara strategia di disarmo, la tregua rischia di trasformarsi in una semplice pausa tattica.
Altre incognite riguardano la gestione del “giorno dopo”. Il piano prevede un ritiro israeliano graduale, ma non specifica tempi né criteri di verifica. Hamas pretende il ritiro completo, mentre Israele intende mantenere una fascia di sicurezza all’interno di Gaza: divergenze che, se non chiarite, possono far riprendere le ostilità. Non è chiaro, inoltre, come sarà costituito il comitato palestinese “tecnocratico” né quale sarà l’effettiva autorità del “Consiglio di pace” presieduto da Trump e coordinato da Tony Blair. La creazione di una forza internazionale di stabilizzazione richiede il consenso di attori arabi che, al momento, restano riluttanti a impegnarsi senza una garanzia di sicurezza e senza un reale coinvolgimento palestinese. Infine, la ricostruzione di Gaza — stimata in oltre 50 miliardi di dollari — dipenderà dal sostegno finanziario dei paesi del Golfo, i quali non intendono investire in un processo che non offra una prospettiva credibile di autodeterminazione palestinese.
Il ruolo di Trump e degli USA
Il nuovo accordo tra Israele e Hamas rappresenta, senza dubbio, il più grande successo diplomatico di Donald Trump dal suo ritorno alla Casa Bianca. Dopo due anni di guerra devastante e oltre 67.000 vittime palestinesi, il presidente statunitense è riuscito a ottenere un cessate il fuoco che molti osservatori consideravano impossibile. Come ha notato The Hill, “solo il tempo dirà se la convinzione del presidente nella possibilità di una pace duratura sarà confermata”, ma anche i più scettici riconoscono che il raggiungimento della “fase uno” è un traguardo significativo. L’intesa è il risultato di una combinazione di pressioni dirette sul primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e di una diplomazia serrata con i principali attori arabi, inclusi Egitto, Qatar e gli Stati del Golfo. Trump, che non ha mai nascosto il suo desiderio di ottenere il Premio Nobel per la Pace, può rivendicare un successo concreto laddove molti dei suoi predecessori avevano fallito.
Secondo ABC News, il presidente ha condotto la trattativa “con diplomazia, pressione e pura forza di personalità”. Dopo mesi di stallo, Trump ha imposto un cambio di ritmo: ha minacciato Hamas di “conseguenze devastanti” se non avesse firmato, ha vincolato Israele alla liberazione degli ostaggi e ha costretto Netanyahu a fare marcia indietro dopo i bombardamenti su Doha, scatenando la mediazione del Qatar. L’inviato speciale Steve Witkoff, figura chiave del suo entourage, ha visitato ripetutamente la regione per ottenere un consenso condiviso, mentre Jared Kushner — già architetto degli “Accordi di Abramo” — ha partecipato agli ultimi round negoziali al Cairo e a Sharm el-Sheikh. Dietro le quinte, Trump ha usato un mix di minacce, incentivi e leve diplomatiche che ha convinto i partner arabi a sostenere il suo piano in venti punti, definendo un raro momento di convergenza regionale.
Il successo di Trump, tuttavia, resta intrinsecamente politico e fragile. Come sottolinea The Guardian, il suo 20-point peace plan ha imposto un nuovo paradigma di mediazione centrato su un Consiglio di pace guidato direttamente dagli Stati Uniti, con Tony Blair come figura di garanzia. Ma questa architettura, più che un modello multilaterale, riflette la visione personale di Trump: una diplomazia verticistica, fondata sulla leadership carismatica e sul controllo diretto del processo. Se il cessate il fuoco reggerà, il presidente potrà rivendicare di aver ottenuto ciò che né Biden né Obama erano riusciti a realizzare — un passo concreto verso la fine della guerra.
Le altre notizie della settimana
L’amministrazione Trump ha avviato il licenziamento di oltre 4.000 dipendenti federali mentre lo shutdown (blocco delle attività governative dovuto alla mancata approvazione del bilancio) entra nella seconda settimana. I tagli riguardano sette dipartimenti, tra cui Tesoro, Salute, Istruzione ed Edilizia, e colpiscono personale definito “non essenziale”.
Trump ha dichiarato che le misure saranno “orientate ai democratici”, accusati di aver provocato la crisi. I sindacati e diversi esponenti politici, anche repubblicani, contestano la legittimità dell’iniziativa, sostenendo che nessun presidente aveva mai proceduto a licenziamenti di massa durante uno shutdown e denunciando il rischio di gravi ricadute sui servizi pubblici e sulla sicurezza.
Il presidente americano ha annunciato un aumento del 100% dei dazi sui prodotti cinesi, in risposta ai nuovi controlli di Pechino sulle esportazioni di terre rare, materiali cruciali per l’industria tecnologica. Le misure, che entreranno in vigore dal 1° novembre, si aggiungono a quelle già esistenti e hanno fatto crollare Wall Street. Trump ha accusato la Cina di “aggressione commerciale” e minacciato ulteriori restrizioni sui software americani destinati a Pechino.
Negli Stati Uniti cresce la tensione politica intorno alla giustizia e al potere presidenziale. La procuratrice generale di New York, **Letitia James**, nota per aver vinto nel 2022 una causa civile contro Donald Trump, è stata **incriminata per frode bancaria e false dichiarazioni** da un gran giurì federale in Virginia. L’accusa arriva dopo settimane di pressioni pubbliche del presidente, che aveva chiesto apertamente al Dipartimento di Giustizia di perseguirla. Il procuratore che inizialmente aveva escluso prove sufficienti è stato rimosso e sostituito da **Lindsey Halligan**, ex avvocata personale di Trump. James denuncia “una vendetta politica” e un grave abuso di potere, mentre giuristi e opposizione parlano di “uso autoritario della giustizia” che mina lo stato di diritto.
Nel frattempo, Trump ha chiesto **l’arresto del sindaco di Chicago, Brandon Johnson, e del governatore dell’Illinois, J.B. Pritzker**, accusandoli di non aver protetto gli agenti dell’immigrazione. Le sue parole arrivano mentre la Casa Bianca schiera la **Guardia Nazionale in Illinois**, provocando cause legali e proteste locali. Pritzker ha denunciato “una deriva autoritaria”, mentre Johnson ha parlato di “persecuzione politica”. La tensione tra governo federale e amministrazioni democratiche si intreccia con lo **shutdown** ancora in corso, delineando un quadro di crescente conflitto istituzionale.