L'anno in cui Trump ha ridefinito la presidenza americana
Tra dispiegamenti militari nelle città, il fallimento in Ucraina e le minacce al Venezuela, un bilancio dell'anno che ha segnato la svolta più radicale della politica americana
Il 2025 è stato, indubbiamente, l’anno di Donald Trump. È stato lui ad accentrare l’attenzione dei media mondiali, a riportare gli Stati Uniti al centro di quasi ogni dossier delicato dello scacchiere internazionale e, al tempo stesso, a imprimere alla politica interna un linguaggio particolarmente duro e divisivo.
Mentre il consenso del presidente inizia a mostrare le prime crepe e il Partito Democratico cerca faticosamente una nuova identità, gli Stati Uniti si preparano a un 2026 che si annuncia altrettanto turbolento. Questo numero della newsletter, come ogni 31 dicembre, ripercorre i momenti chiave di un anno straordinario, tracciando la mappa di un Paese sempre più polarizzato e di una presidenza che ha fatto dello scontro istituzionale il proprio tratto distintivo.
Il 2025: l’anno di Trump
Che non si sarebbe trattato di una presidenza “convenzionale”, per certi versi in misura persino maggiore rispetto al suo primo mandato, è apparso chiaro fin dal discorso inaugurale. Accanto alla retorica ormai canonica che caratterizza da anni il tycoon, culminata nel richiamo a una nuova “età dell’oro” per la nazione, Trump ha rilanciato sin da subito una visione fortemente assertiva del potere americano: dal palco di Washington ha evocato annessioni territoriali, come la necessità di integrare la Groenlandia negli Stati Uniti; ha insistito sulla restaurazione, anche simbolica, dell’autorità statunitense nel mondo, arrivando a proporre la ridenominazione del Golfo del Messico in “Golfo d’America”; e ha delineato una linea di durissimo contrasto al crimine, all’immigrazione e alle cosiddette politiche “woke”, accompagnata dalla promessa di smantellare l’intera agenda ambientale ereditata dall’amministrazione Biden.
In questa cornice si inserisce il ruolo centrale assunto, nei primi mesi del nuovo mandato, dal DOGE (Department of Government Efficiency), l’organismo voluto da Trump e affidato a Elon Musk con l’obiettivo dichiarato di ridurre drasticamente la spesa pubblica e colpire quella che il presidente ha più volte definito l’“inefficienza strutturale” dello Stato federale. Creato per via esecutiva e privo di un chiaro ancoraggio legislativo, il DOGE ha operato come una task force straordinaria, imponendo tagli rapidi e spesso indiscriminati al personale federale e colpendo in particolare i programmi legati alla diversità, alcune agenzie sociali e settori della pubblica amministrazione considerati marginali. I metodi adottati, brutali sul piano comunicativo e opachi su quello contabile, hanno sollevato crescenti critiche per i potenziali costi sociali e strategici, oltre ad aver generato una lunga scia di ricorsi giudiziari. Proprio attorno a questa linea d’azione si è consumata, nel corso della primavera, la rottura politica fra Trump e Musk: le divergenze sul grande pacchetto legislativo repubblicano, accusato dal miliardario di aggravare il debito federale, si sono trasformate in uno scontro pubblico che ha posto fine a un’alleanza fino ad allora centrale nell’architettura del nuovo governo.
Quel pacchetto legislativo, ribattezzato One Big Beautiful Bill, approvato dal Congresso dopo un iter particolarmente accidentato, rappresenta il perno normativo del secondo mandato e racchiude in un unico provvedimento gran parte delle priorità del Partito Repubblicano. La legge rende permanenti i tagli fiscali introdotti nel 2017 e ne amplia la portata; riduce in modo significativo la spesa sociale, in particolare attraverso un ridimensionamento profondo di Medicaid; e smantella buona parte degli incentivi ambientali varati sotto l’amministrazione Biden. Al tempo stesso, il testo prevede un massiccio rafforzamento delle politiche securitarie e migratorie, con nuovi fondi per il completamento del muro al confine, l’espansione dei centri di detenzione e l’assunzione di migliaia di agenti federali, oltre all’introduzione di nuovi oneri economici per i richiedenti asilo. Nel suo complesso, il provvedimento combina un’agenda di drastica riduzione del welfare con un marcato inasprimento sul fronte della sicurezza e dell’immigrazione, accettando un aumento consistente del debito federale come costo politico di una ristrutturazione profonda delle priorità dello Stato.
Su un piano complementare, ma strettamente connesso, la politica dei dazi è tornata a rappresentare uno degli strumenti privilegiati attraverso cui Donald Trump ha cercato di riaffermare il primato economico degli Stati Uniti sulla scena globale. Presentati come risposta necessaria a decenni di pratiche commerciali ritenute scorrette, i nuovi balzelli sono stati utilizzati non tanto come parte di una strategia economica coerente e di lungo periodo, quanto come leva negoziale e simbolica, capace di esercitare pressione immediata su partner e avversari. Annunciati con toni aggressivi e accompagnati da una retorica nazionalista, i dazi sono stati più volte rinviati, modulati o sospesi selettivamente, soprattutto nei confronti di paesi ritenuti strategici come Messico e Canada, confermando un approccio fortemente personalizzato alla politica commerciale. Anche in questo caso, la tensione fra gesto politico e conseguenze concrete è rimasta costante: se da un lato Trump ha potuto presentare i dazi come dimostrazione di forza e di autonomia decisionale, dall’altro le incertezze generate hanno alimentato timori negli ambienti economici e contribuito a rafforzare l’immagine di una presidenza incline a privilegiare l’impatto immediato rispetto alla stabilità degli equilibri economici.
Negli ultimi mesi, come abbiamo raccontato anche nell’ultimo numero della newsletter, il consenso di Trump ha però iniziato a calare. Da un lato i sondaggi registrano una popolarità in progressiva flessione; dall’altro si moltiplicano i segnali di un logoramento più profondo, che investe la sua capacità di orientare in modo automatico il comportamento del Partito Repubblicano. Il contrasto con la fase immediatamente successiva alla rielezione è netto: allora Trump appariva politicamente invincibile, circondato da un ecosistema mediatico e partitico impegnato in una competizione costante nell’assecondarne priorità e desiderata, mentre anche sul piano internazionale numerosi leader sembravano pronti a mostrarsi accondiscendenti nella speranza di ottenere vantaggi, soprattutto commerciali, da un rapporto privilegiato con la Casa Bianca.
Oggi, pur senza che si possa parlare in senso stretto di una presidenza “lame duck”, una parte crescente della stampa americana e degli osservatori politici individua crepe evidenti in quella apparente onnipotenza: pesano il malcontento legato al costo della vita, le tensioni interne al GOP su commercio e immigrazione qualificata, il disagio crescente per la commistione fra affari privati e funzione pubblica e una certa insofferenza della base verso un attivismo internazionale percepito come poco coerente con lo slogan “America First”. A ciò si aggiungono risultati elettorali incoraggianti per i democratici in diverse consultazioni locali e speciali, un quadro economico che continua a generare insicurezza, con inflazione persistente, fiducia dei consumatori in calo e costi sanitari in aumento, e un contesto istituzionale meno favorevole, segnato da interventi giudiziari che hanno rallentato o ridimensionato parti centrali dell’agenda presidenziale.
Il dato politicamente più significativo resta l’emergere di una maggiore autonomia interna al partito: dalla richiesta, ignorata, di abolire il filibuster fino ai casi emblematici dell’Indiana e della gestione degli Epstein files, Trump ha incontrato resistenze che non hanno prodotto immediate ritorsioni o ricomposizioni forzate, segnalando la fine dell’automatismo con cui il sistema repubblicano reagiva alle sue indicazioni e inaugurando una fase in cui il presidente appare sempre più costretto ad adattarsi a dinamiche che non controlla più pienamente.
La svolta securitaria di Trump
In continuità con questo quadro, segnato da un uso sempre più muscolare del potere esecutivo e da una costante ricerca dello scontro istituzionale, nel corso del 2025 il presidente Donald Trump ha disposto il dispiegamento di migliaia di soldati della Guardia Nazionale in diverse città statunitensi, una scelta che ha innescato contenziosi giudiziari e un acceso conflitto politico. Le operazioni, ufficialmente motivate come interventi contro proteste, criminalità, immigrazione irregolare e presenza di senzatetto, hanno riguardato esclusivamente centri urbani amministrati dal Partito Democratico. Durante una riunione di gabinetto del 26 agosto, Trump ha affermato di avere «il diritto di fare qualsiasi cosa voglia» in quanto presidente degli Stati Uniti, sostenendo che, qualora ritenga il Paese in pericolo in determinate città, possa intervenire direttamente. In un incontro del 30 settembre con oltre ottocento generali e ammiragli, ha definito questi dispiegamenti «campi di addestramento per i nostri militari», descrivendo l’America come sotto «invasione dall’interno» e coinvolta in «una guerra interna».
Le prime operazioni sono iniziate a giugno a Los Angeles, dove il presidente ha inviato 700 marines e 4.000 soldati della Guardia Nazionale durante le proteste contro i raid sull’immigrazione, ignorando le obiezioni del governatore della California Gavin Newsom. Ad agosto è seguita Washington, con circa 2.000 militari schierati nella capitale federale, armati e impiegati per pattugliamenti in aree turistiche più che in zone a elevata criminalità. A settembre Trump ha annunciato l’invio di truppe a Memphis e Portland; a ottobre ha autorizzato un dispiegamento a Chicago; a dicembre ha infine comunicato l’arrivo della Guardia Nazionale a New Orleans. Queste scelte affondano le radici nella campagna elettorale del 2024, quando Trump aveva promesso di usare l’esercito per reprimere le proteste senza il consenso dei governatori e contro quello che definiva il «nemico interno», espressione con cui indicava esponenti della sinistra radicale, politici democratici e oppositori della sua candidatura. Dopo l’elezione, l’amministrazione ha inoltre avviato una serie di epurazioni ai vertici delle forze armate e dell’intelligence; già a febbraio, il segretario alla Difesa Pete Hegseth aveva licenziato diversi avvocati militari, dichiarando di volere «consiglieri costituzionali solidi e non persone che esistano per fare da ostacolo a qualsiasi cosa».
Il caso di Los Angeles ha assunto un rilievo particolare il 2 settembre, quando il giudice distrettuale Charles Breyer ha stabilito che l’amministrazione Trump aveva violato il Posse Comitatus Act, la legge del 1878 che vieta all’esercito di svolgere funzioni di polizia civile. Secondo Breyer, «non c’era alcuna ribellione, né le forze dell’ordine civili erano incapaci di rispondere alle proteste e far rispettare la legge», descrivendo l’azione dell’esecutivo come un apparente tentativo di «creare una forza di polizia nazionale con il presidente come suo capo». Il Posse Comitatus Act prevede alcune eccezioni. L’Insurrection Act del 1807 consente al presidente di schierare truppe per sedare rivolte o gravi minacce all’ordine pubblico, ma solo in circostanze straordinarie. È inoltre possibile federalizzare la Guardia Nazionale in caso di emergenze nazionali, scelta che richiede una motivazione chiara e, nella prassi, il consenso del governatore dello Stato coinvolto. Washington rappresenta un’eccezione, poiché la Guardia Nazionale della capitale è già sotto il controllo diretto del presidente, circostanza che gli conferisce poteri non automaticamente estendibili altrove.
L’impiego della Guardia Nazionale per il mantenimento dell’ordine interno non è del tutto inedito nella storia statunitense, ma è stato tradizionalmente limitato a crisi acute e circoscritte. Nel 1957 Dwight Eisenhower ordinò l’invio della 101ª Divisione Aviotrasportata a Little Rock per garantire l’attuazione della desegregazione scolastica; nel 1965 Lyndon Johnson dispiegò la Guardia Nazionale in Alabama per proteggere i manifestanti per i diritti civili; nel 1992 George H. W. Bush autorizzò lo schieramento a Los Angeles dopo i violenti disordini seguiti all’assoluzione dei poliziotti coinvolti nel pestaggio di Rodney King, ma solo su formale richiesta del governatore della California. Ciò che distingue l’approccio di Trump è la sistematicità e la forte politicizzazione di questi interventi. Se in passato i presidenti sono intervenuti in risposta a crisi specifiche e temporanee, l’attuale amministrazione sembra voler normalizzare la presenza militare nelle strade come strumento di politica interna, anche in assenza di una reale emergenza. La Guardia Nazionale viene inoltre impiegata per attività di polizia ordinaria, pattugliamenti, controlli e presidi, tradizionalmente affidate alle forze dell’ordine locali.
A Portland, il 27 settembre, Trump ha annunciato l’invio di truppe per contrastare presunti «terroristi domestici» in una città descritta come «devastata dalla guerra». In realtà, secondo la polizia, le proteste pacifiche attorno a una struttura dell’Immigration and Customs Enforcement coinvolgevano appena nove-quindici manifestanti per notte. Molti residenti hanno contestato la narrazione presidenziale sui social media, pubblicando immagini della quotidianità urbana, mentre alcuni manifestanti hanno risposto indossando costumi gonfiabili di animali per ridicolizzare l’idea di una zona di guerra. Il sindaco di Chicago Brandon Johnson ha avvertito che la presenza della Guardia Nazionale potrebbe «infiammare le tensioni» e compromettere la fiducia nelle forze dell’ordine; il governatore dell’Illinois JB Pritzker ha parlato di una «presa di potere autoritaria» priva di una reale giustificazione emergenziale. Il leader della minoranza alla Camera Hakeem Jeffries ha accusato il presidente di fabbricare una crisi, mentre la sindaca di Washington Muriel Bowser e altri amministratori hanno sottolineato che il calo della criminalità era già in atto e che i militari non dispongono di una formazione adeguata per svolgere compiti di polizia.
Le controversie giudiziarie si sono moltiplicate in vari Stati. I tribunali hanno ripetutamente stabilito che le affermazioni presidenziali su rivolte e violenze risultavano esagerate o, in alcuni casi, «slegate dai fatti». A Portland, la giudice Karin Immergut ha ricordato che «questo Paese ha una tradizione duratura e fondamentale di resistenza all’eccesso di potere governativo, soprattutto quando assume la forma di un’intrusione militare negli affari civili». In Illinois, la corte d’appello ha affermato che «l’opposizione politica non è ribellione», bloccando il dispiegamento. A dicembre la Corte Suprema ha respinto la richiesta dell’amministrazione di revocare il blocco, mentre in California le truppe federalizzate hanno dovuto lasciare Los Angeles su ordine della corte d’appello. Secondo costituzionalisti ed esperti di diritto, l’uso della Guardia Nazionale in assenza di un autentico stato di emergenza rischia di rendere ordinaria la presenza militare nello spazio pubblico e di indebolire il principio del controllo civile sulle forze armate: i soldati sono addestrati per affrontare calamità naturali, crisi sanitarie o minacce militari, non per svolgere funzioni di polizia quotidiana.
La religione al centro del governo Trump
Il 25 dicembre 2025 diverse agenzie federali hanno diffuso messaggi natalizi esplicitamente religiosi dai loro canali ufficiali. Il segretario alla Difesa ha celebrato «la nascita di nostro Signore e Salvatore, Gesù Cristo», mentre il segretario di Stato ha scritto che «il gioioso messaggio del Natale è la speranza della vita eterna attraverso Cristo». Il Dipartimento della Sicurezza Nazionale ha condiviso un video con la frase «siamo benedetti nel condividere una nazione e un Salvatore». Sebbene la Costituzione vieti l’istituzione di una religione di stato e, storicamente, i funzionari pubblici abbiano evitato un linguaggio confessionale, questi messaggi rappresentano l’aspetto più visibile di una strategia che sta ridefinendo il ruolo della religione nelle istituzioni federali.
L’amministrazione ha istituito tre nuove strutture. Il Faith Office alla Casa Bianca è guidato da una pastora evangelica ed è incaricato di assistere le organizzazioni religiose, coordinare la formazione sulla libertà di culto e individuare opportunità di finanziamento. La Religious Liberty Commission è presieduta dal vicegovernatore del Texas e comprende religiosi e commentatori cristiani conservatori che hanno sostenuto politicamente Trump. Una task force presso il Dipartimento di Giustizia ha il compito di «perseguire la violenza anti-cristiana» e di individuare presunte azioni «illegalmente anti-cristiane» della precedente amministrazione. Durante un evento alla Casa Bianca, Trump ha liquidato il principio di separazione tra chiesa e stato affermando: «Dimentichiamocene per una volta».
Le iniziative concrete interessano numerosi ambiti. L’Internal Revenue Service ha autorizzato i pastori a sostenere candidati politici dal pulpito senza perdere l’esenzione fiscale, svuotando di fatto il Johnson Amendment del 1954. I dipendenti federali possono promuovere la propria fede tra i colleghi ed esporre simboli religiosi sul luogo di lavoro. L’esecutivo ha ridotto i finanziamenti Medicaid a Planned Parenthood e ha concesso la grazia ad attivisti anti-aborto condannati per il blocco di cliniche. Sono stati firmati ordini esecutivi che riconoscono esclusivamente maschio e femmina come sessi biologicamente determinati, limitando l’accesso alle cure per i minori transgender, e vietando agli atleti transgender la partecipazione agli sport femminili. Trump ha inoltre nominato un ex governatore e ministro battista come ambasciatore in Israele, ha tagliato fondi a università, musei ed emittenti pubbliche e ha smantellato i programmi di diversità e inclusione nelle agenzie federali e in alcune realtà private.
Le tre nomine effettuate da Trump alla Corte Suprema durante il primo mandato continuano a produrre effetti. A giugno, la Corte ha stabilito che i genitori con obiezioni religiose possono ritirare i figli da lezioni che utilizzano libri a tema LGBTQ, che gli stati possono vietare le cure di affermazione di genere per i minori transgender e che possono bloccare i fondi Medicaid a Planned Parenthood. Tutte le decisioni sono state prese con una maggioranza di 6 a 3, con i giudici nominati da Trump schierati nel fronte conservatore. I principali sondaggi indicano che circa il 70-80% degli evangelici bianchi approva l’operato del presidente. Secondo il Pew Research Center, il 62% degli americani si identifica come cristiano, con un calo di nove punti percentuali rispetto al 2014. Le ricerche mostrano una forte correlazione tra il sostegno a Trump e il nazionalismo cristiano, in particolare tra gli evangelici più politicamente attivi. Questo fenomeno ha rafforzato la destra religiosa, ma ha anche suscitato inquietudine in comunità cristiane più ampie, poiché molti teologi non ritengono il nazionalismo cristiano compatibile con il messaggio evangelico.
L’alleanza tra Trump e il mondo evangelico non è tuttavia monolitica. Alcuni leader cristiani criticano questa identificazione politica, sostenendo che finisca per compromettere la testimonianza religiosa o per confondere il potere terreno con la missione spirituale della Chiesa. Per molti fedeli, il sostegno al presidente è legato soprattutto alla convergenza su aborto, libertà religiosa e valori familiari, più che alla sua figura personale. I sostenitori interpretano queste politiche come un ripristino delle tutele per la religione, mentre i critici ritengono che esse sollevino seri interrogativi costituzionali sui confini tra chiesa e stato.
La politica estera: la tregua a Gaza e il fallimento in Ucraina
Trump ha dedicato il primo anno del suo secondo mandato principalmente alla politica estera, trasformando la sua residenza di Mar-a-Lago in un centro di diplomazia globale. In questi ultimi giorni dell’anno, Trump ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre ordinava azioni militari in Nigeria, Venezuela e Siria. Un approccio che ha prodotto alcuni successi diplomatici significativi ma ha lasciato irrisolti numerosi conflitti internazionali.
Il risultato più importante dell’anno è stato il cessate il fuoco tra Israele e Hamas raggiunto a ottobre, dopo circa due anni di combattimenti a Gaza. L’accordo ha fermato i combattimenti su larga scala e ha permesso il rilascio di tutti gli ostaggi trattenuti da Hamas dall’attacco del 7 ottobre 2023. L’amministrazione Trump ha definito questo accordo un elemento centrale del suo bilancio diplomatico del 2025. Tuttavia, la tregua appare fragile. La seconda fase dell’accordo, che prevede la creazione di una forza di pace internazionale e il disarmo di Hamas, stenta a decollare. Senza progressi sostanziali, il cessate il fuoco rischia di collassare.
Sul fronte ucraino, Trump ha intensificato gli sforzi per porre fine alla guerra, che a febbraio entrerà nel quarto anno. L’incontro di fine dicembre a Mar-a-Lago con Zelensky ha prodotto segnali di ottimismo, con Trump che ha dichiarato di essere “molto vicino” a un accordo. I negoziatori americani hanno spinto l’Ucraina ad accettare compromessi territoriali nella regione del Donbas, proponendo la creazione di una zona economica libera smilitarizzata. Zelensky ha mostrato una certa apertura, ma chiede garanzie di sicurezza occidentali robuste per 30-50 anni. Il problema principale resta la posizione di Mosca: il presidente russo Vladimir Putin continua a rifiutare qualsiasi compromesso, richiedendo il controllo totale del Donbas, limiti alle forze armate ucraine e il divieto di adesione alla NATO per Kiev. Nonostante le conversazioni telefoniche tra Trump e Putin e un summit in Alaska ad agosto, il Cremlino ha ripetutamente bloccato i progressi.
Il Venezuela è emerso come uno dei fronti più controversi della politica estera di Trump. A fine dicembre il presidente ha rivelato che gli Stati Uniti avevano colpito una “grande struttura” legata al traffico di droga in territorio venezuelano. Secondo diverse fonti, la CIA avrebbe condotto un attacco con drone contro un molo, che rappresenterebbe la prima azione di terra conosciuta degli Stati Uniti dentro il paese. L’operazione si inserisce in una campagna di pressione durata mesi per costringere il presidente Nicolás Maduro a dimettersi. Trump ha dichiarato che i giorni di Maduro sono “contati” e ha inquadrato il leader venezuelano come una minaccia criminale legata al narcotraffico, accusandolo di aver rubato la presidenza rifiutando di riconoscere i risultati delle ultime elezioni.
Durante dicembre Trump ha intensificato la pressione: ha annunciato un blocco navale e dispiegato un’armata americana al largo delle coste venezuelane per bloccare le petroliere sanzionate. L’amministrazione ha anche annunciato piani per classificare il governo Maduro come organizzazione terroristica straniera e a dicembre ha sequestrato una petroliera venezuelana. A novembre Trump aveva ordinato la chiusura dello spazio aereo venezuelano. Gli Stati Uniti hanno inoltre condotto attacchi contro imbarcazioni sospettate di trafficare droga nei Caraibi e nel Pacifico.
Questa escalation ha spaccato il movimento America First, che Trump aveva costruito in parte sulla promessa di tenere gli Stati Uniti fuori da coinvolgimenti stranieri. Alcuni critici hanno avvertito che il rovesciamento di Maduro potrebbe destabilizzare la regione e trascinare gli Stati Uniti in un conflitto pluriennale. Tuttavia, le critiche non hanno scoraggiato Trump. L’amministrazione continua a imporre sanzioni contro il regime e a portare avanti gli sforzi contro le reti di cartelli legate al governo venezuelano. Non esiste alcun processo di pace in vista, ma alcuni esponenti dell’opposizione venezuelana e alleati americani sostengono che la pressione sostenuta potrebbe forzare un cambio politico nel 2026.
Trump ha anche ordinato azioni militari in altri teatri. Il giorno di Natale ha annunciato attacchi contro il gruppo terroristico ISIS nel nord-ovest della Nigeria, presentati come un messaggio a difesa dei cristiani perseguitati. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha avvertito sui social media che ci sarà “altro in arrivo”. La situazione in Nigeria è complessa e alcuni analisti hanno sollevato dubbi sulla reale affiliazione dei gruppi colpiti con ISIS, mentre l’amministrazione non ha fornito briefing pubblici dettagliati su chi esattamente è stato preso di mira.
Anche il confronto con l’Iran resta aperto. A giugno, Trump si è unito a Israele nell’attaccare le strutture nucleari iraniane, in quella che è stata una breve guerra. Dopo 12 giorni di combattimenti e un bombardamento americano con bombe anti-bunker che Trump ha dichiarato aver “completamente obliterato” il programma nucleare di Teheran, il presidente è riuscito a imporre una tregua tra Israele e Iran. Ora però crescono i timori che l’Iran stia ricostruendo il suo programma nucleare e quello missilistico, una situazione che potrebbe innescare un nuovo ciclo di conflitti.
Trump ha ottenuto altri successi diplomatici minori. Ad agosto ha ospitato alla Casa Bianca i leader di Armenia e Azerbaigian per una dichiarazione di pace volta a risolvere decenni di conflitto legato al Nagorno-Karabakh. A dicembre ha mediato la firma degli Accordi di Washington tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda per porre fine a decenni di scontri. Ha anche contribuito a un cessate il fuoco tra India e Pakistan dopo un attacco terroristico in Kashmir e ha mediato una tregua tra Cambogia e Thailandia durante un summit dell’ASEAN.
Le relazioni con la Cina hanno vissuto una fase di distensione temporanea dopo che Trump e il presidente Xi Jinping hanno negoziato una tregua commerciale di un anno a ottobre. Tuttavia, l’accordo appare già fragile. Questioni come il flusso di precursori chimici del fentanyl verso il Messico, gli acquisti cinesi di prodotti agricoli americani e un accordo sulle terre rare non sono state risolte. A fine dicembre la Cina ha condotto esercitazioni militari attorno a Taiwan in risposta alla vendita di armi americane all’isola, definendo le manovre un “severo avvertimento” contro separatismo e interferenze esterne.
Cosa succede tra i Democratici
Il secondo mandato di Donald Trump ha visto un netto calo nell’approvazione del presidente. Dall’altra parte, il Partito Democratico attraversa una crisi d’identità ma vede emergere tre possibili leader per il futuro: Kamala Harris, Gavin Newsom e Zohran Mamdani. Questi nomi rappresentano la nuova generazione di candidati che potrebbe sfidare Trump in caso di terza candidatura o un Partito Repubblicano ancora di stampo trumpiano.
Kamala Harris, ex vicepresidente sotto l’amministrazione Biden e subentrata a lui nella corsa elettorale per le presidenziali del 2024, sta seguendo una strategia simile a quella perseguita da Hillary Clinton. Come l’ex first lady, senatrice e segretario di Stato, ha pubblicato un libro intitolato “107 Days” che racconta la campagna elettorale del 2024. Ha partecipato alle più famose trasmissioni televisive per promuoverlo, senza risparmiare critiche al presidente e al pericolo che la sua politica rappresenta per gli Stati Uniti.
Prima di Natale, Harris ha compiuto mosse che segnalano una potenziale candidatura nel 2028. Ha esteso il tour promozionale del libro ed è apparsa di fronte al Democratic National Committee, dove Ken Martin ha definito il marito della Harris “ex second gentleman e potenziale futuro first gentleman“. In quell’occasione Harris ha parlato criticando apertamente il suo stesso partito. Successivamente ha partecipato al gala della United Farm Workers, dove è stata accolta con grandi applausi.
Gavin Newsom, governatore della California, appare come la personalità più forte tra i tre. Non risparmia ferocissime critiche all’amministrazione, non si fa intimidire dalle posizioni di quest’ultima e non perde mai occasione per rispondere a tono. Il suo team ha aperto un profilo su X dove i toni e i modi di scrivere ricalcano quelli di Trump su Truth, il social aperto dal presidente durante il periodo in cui era bannato da Facebook e Twitter-X, ridicolizzando Donald Trump.
I sondaggi mostrano un altissimo gradimento sia per Kamala Harris che per Gavin Newsom. Il governatore della California è stato indicato come la persona giusta per guidare il Partito Democratico contro quello Repubblicano di stampo trumpiano già durante le ultime fasi della campagna elettorale del 2024 e nelle prime settimane successive alla vittoria di Donald Trump.
Zohran Mamdani, neo sindaco di New York, rappresenta il terzo nome di questa corsa. Il suo mandato alla guida della Grande Mela inizierà domani, primo gennaio 2026, ma Mamdani è già al lavoro da settimane per scegliere la sua squadra. Tra i nomi indicati c’è anche Ramzi Kassem, affermato avvocato per i diritti civili e professore di diritto alla City University of New York, nonché ex consulente in materia di immigrazione per l’ex presidente Biden, nominato come principale consulente legale del sindaco.
Mamdani ha vinto proponendo un programma più a sinistra rispetto a quello a cui il Partito Democratico è abituato, specialmente nelle grandi città e nel centro finanziario degli Stati Uniti, convincendo una larga parte degli elettori più giovani. La sua posizione nel partito dipenderà dall’evolversi del suo mandato e dai successi o fallimenti che ne conseguiranno.
Nel novembre del 2026 si svolgeranno le elezioni di metà mandato che saranno influenzate dal proseguimento del secondo mandato presidenziale di Donald Trump. Gli osservatori politici terranno gli occhi puntati su queste tre personalità e sugli eventi che li riguarderanno.


