L'impeachment e le divisioni del GOP
L’attenzione mediatica, durante questa settimana, è stata monopolizzata da Donald Trump, che ha dovuto fronteggiare per la seconda volta un processo di impeachment con l’accusa di aver fomentato gli assalitori che lo scorso 6 gennaio misero a ferro e fuoco il congresso.
Un processo rapido, in cui gli stessi democratici hanno rinunciato alla possibilità di portare la testimonianza di altri testimoni, terminato con l’assoluzione del tycoon: per la condanna servivano 67 voti al Senato, l'ex presidente si è fermato a quota 57.
Questo nonostante la maggioranza più ampia nella storia per questo tipo di voto, dato che a favore si sono espressi ben sette repubblicani, ovvero Richard Burr (North Carolina), Bill Cassidy (Louisiana), Susan Collins (Maine), Lisa Murkowski (Alaska), Mitt Romney (Utah), Pat Toomey (Pennsylvania) e Ben Sasse (Nebraska).
Non è arrivato, invece, il voto favorevole di Mitch McConnel, che in un curioso e forse anche leggermente contraddittorio discorso, però, ha poi attaccato lo stesso Trump accusandolo di aver fomentato gli attacchi. Pur ritenendolo colpevole di quanto affermato, però, il leader dei repubblicani al Senato si è murato dietro l’affermazione secondo cui non era legale l’impeachment per un presidente non più in carica
Il dubbio però era stato fugato già all’inizio della settimana, quando il Senato (sfruttando anche il parere di numerosi costituzionalisti) aveva votato per dichiararlo a tutti gli effetti costituzionale. Con il voto favorevole, a sorpresa, di Bill Cassidy della Louisiana, che si è unito alla lista dei senatori GOP schierati apertamente contro l'ex leader.
Il fatto che il processo si sia concluso con l’assoluzione, però, non mina l’impianto guidato dal Jamie Raskin, definito efficace anche da molti repubblicani. I democratici hanno puntato molto sull’impatto visivo, mostrando numerose immagini inedite dell’assalto al Congresso intervallate da dichiarazioni di Trump in cui l’ex presidente sembrava fomentare la folla.
Più fragile è stato invece l'impianto difensivo repubblicano, forte però anche dei numeri del congresso che rendevano probabile un'assoluzione e che ha portato a non usare neanche tutto il tempo a disposizione. Ma, oltre l'assoluzione probabile e scontata, quali le conseguenze politiche che avrà questo voto?
Del dibattito interno ai repubblicani parleremo fra poco, mentre interessante potrà essere vedere le conseguenze a livello elettorale per gli esponenti del GOP che hanno votato a favore del processo d'impeachment. Donald Trump, infatti, gode ancora di un ampio livello di popolarità all'interno del suo elettorato, che non ha certamente visto di buon occhio un voto contrario.
L'unica a rischiare davvero è Lisa Murkowski, che dovrà difendere il suo seggio nel 2022 e che paga il suo essere stata molto critica con Trump già in passato (ha votato contro l'ex presidente in numero molto maggiore rispetto agli altri esponenti del partito, che ha anche minacciato di lasciare). Burr e Toomey, infatti, hanno già annunciato la mancata ricandidatura, mentre Collins, Cassidy e Sasse sono stati rieletti quest'anno e quindi rimarranno al Senato, in ogni caso, sino al 2026.
Ed in tutto questo, Donald Trump? L’ex presidente s’è fatto vivo dopo la sua assoluzione con una lettera in cui accusava i democratici di aver iniziato un processo politico e soprattutto dava battaglia in vista del futuro, aprendo a riflessioni circa la sua possibile ricandidatura nel 2024.
MA IL PARTITO REPUBBLICANO È DIVISO
La questione impeachment, però, non è l'unica a tenere banco in casa repubblicana: all'interno del GOP, infatti, si sta vivendo un acceso dibattito interno in una delicata fase politica, nel quale si deciderà quale sarà il destino del partito al tramonto di una presidenza travagliata e discussa come quella Trump.
Fin quando l'inquilino della Casa Bianca era al potere, quasi tutti sono rimasti fedeli, ma dopo le accuse di brogli elettorali ed i fatti dello scorso 6 gennaio, in diversi hanno iniziato a smarcarsi.
Uno dei casi che hanno fatto più rumore è quello di Liz Cheney, House Republican Conference Chair (la terza carica del Partito Repubblicano alla Camera), che dopo l'assalto al Congresso dello scorso 6 gennaio ha scelto di votare a favore dell'impeachment di Donald Trump. Questo ha aperto numerose polemiche all'interno del partito, con l'ala più vicina all'ex presidente che ha chiesto a gran voce di rimuoverla dal suo ruolo.
Contro di lei non si sono mossi soltanto esponenti del Congresso, ma anche i rappresentanti del suo stato, che hanno intrapreso una mozione (principalmente simbolica) di censura indirizzata nei suoi confronti. Un confronto aspro che ha trovato ampio spazio sulle colonne dei giornali, ma che rappresenta solo una faccia di una diatriba interna destinata a proseguire nel tempo.
Quasi all'estremo opposto nel partito, infatti, c’è Marjorie Taylor Greene, già esclusa Education and Labor Committee and the Budget Committee a causa di alcune sue teorie violente ed estremiste (in passato aveva sia strizzato l’occhio al suprematismo bianco, sia sostenuto che alcuni democratici dovessero essere condannati morte, sia negato una sparatoria scolastica in cui hanno perso la vita 17 persone).
In mezzo, però, c'è una fascia enorme di Partito Repubblicano, quell'ala moderata che ha sempre accettato di convivere con il trumpismo senza approvarlo mai fino in fondo.
Area a cui sembra essersi iscritta anche l'importante voce di Nikki Haley, ex ambasciatrice e considerata una delle più papabili candidate alle primarie per le presidenziali del 2024, che in una recente intervista a POLITICO ha ammesso che l'aver seguito sino in fondo Donald Trump è stato un errore.
Per concludere il discorso sul GOP, in settimana si registra anche un altro Senatore che ha annunciato la non ricandidatura nelle elezioni del 2022.
ED IL RESTO DEL MONDO POLITICO?
In tutto questo rischiavamo quasi di dimenticarci di Joe Biden. Come prevedibile, negli ultimi giorni l'attenzione mediatica è stata catalizzata sul processo di impeachment, ma è proseguito il dibattito circa il pacchetto di stimolo da 1.9 trilioni di dollari per rilanciare l'economia dal COVID19.
Fin dall'inizio del suo mandato, Joe Biden aveva dichiarato di voler cercare un accordo bypartisan con i repubblicani, ma vista la resistenza del GOP (che considera esagerata la cifra e vorrebbe un pacchetto minore con aiuti più mirati) potrebbe proseguire solo con i voti della maggioranza democratica.
I sondaggi pubblicati nelle scorse settimane dimostrano come la scelta di agire rapidamente e con energia sia approvata dalla stragrande maggioranza degli americani, favorevoli al nuovo pacchetto di stimoli.
Un’altra importante mossa del presidente uscente riguarda il carcere di Guantanamo: secondo un’indiscrezione riportata da Reuters, infatti, Biden sarebbe intenzionato ad iniziare le pratiche per la sua chiusura.
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