Israele, l’alleato scomodo degli Stati Uniti
Dalla nascita dello Stato ebraico al conflitto di Gaza: la relazione tra Washington e Gerusalemme tra sostegno militare, simboli culturali e tensioni politiche.
La guerra nella Striscia di Gaza rimane, com’era prevedibile, un tema estremamente sensibile anche negli Stati Uniti. In questo momento non si registrano mobilitazioni paragonabili a quelle viste in Italia negli ultimi giorni ma, solo per fare un esempio, nel periodo precedente alle scorse presidenziali si creò un certo movimento a sinistra molto critico per la timidezza con cui i Dem criticavano Israele. Tutto questo si è ritrovato alle urne, visto che soprattutto nelle zone abitate da minoranze arabe Kamala Harris ha perso notevolmente consenso rispetto a Biden. Tutto questo si inserisce in un contesto complesso: il rapporto tra Stati Uniti e Israele, che appare solido e ferreo, non è mai stato del tutto immune da tensioni e ambiguità.
La storia delle relazioni USA-Israele
Woodrow Wilson, favorevole alla causa sionista e vicino alle aspirazioni ebraiche in Europa, già nel marzo 1919 scrisse che “in Palestina dovranno essere poste le fondamenta di un futuro commonwealth ebraico”; nell’aprile ribadì l’“acquiescenza” americana alla Dichiarazione Balfour. Quest’ultima, firmata dal ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour nel 1917, sanciva il sostegno di Londra alla creazione in Palestina di un “focolare nazionale per il popolo ebraico”. Non si trattò ancora di una linea ufficiale del Dipartimento di Stato, ma nel 1922 il Congresso approvò la Lodge–Fish Resolution in favore di una “casa nazionale per il popolo ebraico”, proprio nello stesso giorno in cui la Società delle Nazioni ratificò il Mandato britannico sulla Palestina. Dopo la Seconda guerra mondiale, tra la crisi dei profughi e la nuova centralità del Medio Oriente, Washington sostenne il piano ONU di partizione (Risoluzione 181, 29 novembre 1947), frutto anche di un’intensa campagna di lobbying. Alla vigilia della fine del Mandato britannico, la Casa Bianca divenne terreno di scontro: Truman fu spinto dal consigliere Clark Clifford a riconoscere lo Stato ebraico, mentre il segretario di Stato George Marshall temette contraccolpi nei rapporti con il mondo arabo, sul petrolio e sulla stabilità regionale. Il 14 maggio 1948, comunque, gli Stati Uniti furono i primi a concedere il riconoscimento, poche ore dopo la dichiarazione di Ben-Gurion.
Negli anni Cinquanta e Sessanta l’alleanza prese forma tra prudenza e calcoli strategici. Eisenhower mantenne una linea cauta, con aiuti economici moderati, mentre il vero sostegno allo sviluppo arrivò dai risarcimenti tedeschi. Kennedy invece impresse un cambio di passo: pose fine all’embargo sulle armi, autorizzò la vendita dei missili HAWK nel 1962 e coniò l’idea di una “special relationship”. Allo stesso tempo mostrò diffidenza verso il programma nucleare israeliano di Dimona, promuovendo ispezioni congiunte, convinto insieme a molti a Washington che Israele intendesse dotarsi dell’arma atomica entro fine decennio. Il 1967 segnò lo spartiacque: per Lyndon Johnson Israele divenne un asset militare e politico. Arrivarono armi avanzate e la relazione si istituzionalizzò, pur con ferite aperte come l’attacco alla nave spia USS Liberty, che costò la vita a 34 americani. Israele parlò di tragico errore di identificazione, ma le polemiche durarono decenni. Come sottolinea Vox, fu in questa fase che il legame crebbe soprattutto come calcolo da Guerra fredda, volto a contenere l’URSS in un’area chiave, più che per una pura vicinanza “valoriale”.
Tra anni Settanta e Novanta la relazione oscillò fra diplomazia e strategia: gli accordi di Camp David del 1978–79, mediati da Carter tra Sadat e Begin, portarono alla pace israelo-egiziana e al ritiro dal Sinai, ma lasciarono irrisolta la questione palestinese, mentre con Reagan e Bush padre l’alleanza si strutturò sul piano militare e finanziario, tra cooperazione strategica, status di “major non-NATO ally” e prestiti legati al freno sugli insediamenti. Clinton provò a trasformare questi strumenti in architettura di pace, dal riconoscimento reciproco Israele–OLP al trattato con la Giordania, ma il processo si inceppò fra terrorismo, colonie e l’assassinio nel 1995 di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano e artefice degli accordi di Oslo.
Dopo l’11 settembre, il quadro si riorientò attorno alla “guerra al terrorismo”. Bush figlio parlò di due Stati, ma legò il negoziato a un cambio di leadership palestinese; nel 2006 spinse per elezioni che Hamas vinse, aprendo la strada a sanzioni e a una frattura tra Gaza e Cisgiordania che dura tuttora. Nel 2003, in piena Intifada, Washington offrì 9 miliardi di garanzie di prestito; già nel 2002 la “Road Map” aveva codificato come parametri negoziali sia i grandi blocchi di insediamenti sia le preoccupazioni di sicurezza israeliane. Obama sostenne Israele nelle guerre a Gaza, ma non riuscì a ottenere uno stop duraturo agli insediamenti; Trump spostò l’ambasciata a Gerusalemme e lanciò gli Accordi di Abramo, puntando su una normalizzazione regionale indipendente dal dossier palestinese.
Con Biden, l’asse tornò alla grammatica tradizionale: supporto militare e diplomatico, tentativi di intesa con Riad. Dopo il 7 ottobre 2023, la formula fu “rock solid and unwavering”, mentre Washington mediò tregue temporanee e scambi di ostaggi e prigionieri. Qui emerse la vera fragilità del racconto pubblico: come sottolinea ancora Vox, nell’articolo che abbiamo già citato, se il fondamento simbolico del legame furono i “valori condivisi” — Israele “unica democrazia della regione” — l’occupazione prolungata e le crisi umanitarie ne erodono la credibilità, soprattutto tra giovani e progressisti americani. E tuttavia, lo sfondo culturale continuò a pesare: la Bibbia e il sionismo cristiano, la memoria della Shoah dopo il 1967, la pop culture e un Congresso trasversalmente favorevole trasformarono nel tempo ebrei e israeliani da “outsider” a “insider” del discorso nazionale statunitense. Fu su questa miscela di strategia, politica interna e affinità simbolica che il rapporto continuò a reggersi: elastico abbastanza da assorbire le frizioni, ma solido a sufficienza da definire ancora oggi la postura americana in Medio Oriente.
Come influisce il voto ebraico
Il voto ebraico negli Stati Uniti è da decenni una delle basi più solide del Partito Democratico. A partire dagli anni Settanta, comunità ebraiche urbane e istruite hanno sostenuto in massa candidati liberal, da McGovern e Mondale fino a Obama e Biden. È stata una fedeltà radicata in fattori culturali e politici: l’identificazione con i diritti civili, la tradizione di impegno sociale e il radicamento nelle aree metropolitane più progressiste. Ancora nel 2020, nonostante la polarizzazione, la maggioranza degli elettori ebrei ha confermato il proprio orientamento democratico.
Le elezioni del 2024 hanno però introdotto una discontinuità significativa. Pur rimanendo in larga parte legati ai Democratici, molti elettori ebrei hanno mostrato un chiaro spostamento a destra: un calo stimato tra i cinque e i dieci punti, che ha ridotto i margini in diversi contesti chiave. Non è stato un travaso di massa, ma abbastanza per far notizia. In sobborghi come Scarsdale e Roslyn, tradizionali roccaforti liberal, il margine democratico si è assottigliato di oltre dieci punti. A Squirrel Hill, quartiere ebraico storico di Pittsburgh, la flessione è stata più contenuta, intorno ai tre punti, mentre a Lakewood, comunità a maggioranza ortodossa, lo swing verso i repubblicani ha raggiunto sedici punti. Episodi locali, certo, ma che insieme segnalano una tendenza reale.
Le cause sono molteplici. Da un lato, pesa l’aumento del peso demografico degli ortodossi e delle comunità di origine israeliana o ex sovietica, più conservatrici su molte questioni sociali e politiche. Dall’altro, tra riformati e conservatori — che restano in prevalenza progressisti — cresce un senso di distacco: si continua a dirsi “pro-Israele”, ma non necessariamente “pro-Netanyahu”. Il premier israeliano è visto con forte diffidenza e non manca chi sostiene misure come il blocco alle forniture di armi offensive o sanzioni a ministri dell’ultradestra. Ne risulta un voto meno compatto, più articolato, che pur rimanendo in maggioranza democratico si rivela oggi più vulnerabile, capace di incidere sugli equilibri in stati e distretti decisivi.
Cosa è cambiato nell’ultimo periodo
Per oltre una generazione il sostegno a Israele è stato un pilastro indiscusso della politica americana, a prescindere da chi governasse. Oggi, però, la lunga e sanguinosa guerra a Gaza ha reso evidente una frattura che da tempo covava sotto la superficie. L’offensiva israeliana, seguita in diretta in tutto il mondo e alimentata da aiuti militari statunitensi, ha scatenato una mobilitazione progressista senza precedenti dagli anni delle proteste contro il Vietnam e l’apartheid sudafricano. Non è più soltanto una battaglia identitaria per comunità arabe o musulmane: campus universitari, chiese afroamericane e intere fasce giovanili hanno definito Gaza un “genocidio” e invocato lo stop alle forniture di armi. I sondaggi riflettono questo cambio: calano i giudizi positivi su Israele tra i democratici, soprattutto i più giovani, ma anche tra repubblicani under 50 ed evangelici di nuova generazione. Israele è passato dall’essere alleato bipartisan a diventare un terreno divisivo.
La spaccatura attraversa entrambi i grandi partiti. Nei Democratici, il dissenso è ormai esplicito: a luglio 2024 quasi metà dei senatori ha votato per bloccare una spedizione di armi, mentre organizzazioni come J Street hanno guadagnato centralità politica e risorse. La figura di Netanyahu, percepita come vicina alla destra americana sin dai tempi di Obama, ha ulteriormente accelerato la perdita di consenso. Tra i Repubblicani, l’appoggio ufficiale a Israele resta forte, ma nel mondo MAGA emergono voci di rottura: da Marjorie Taylor Greene a Tucker Carlson e Steve Bannon, cresce la linea “America Only”, che accusa Israele di trascinare Washington in conflitti costosi e lontani. Così, un consenso bipartisan che sembrava intoccabile mostra oggi crepe profonde, alimentate da tensioni generazionali e culturali.
Questa trasformazione ha avuto effetti diretti sulle presidenziali del 2024. Kamala Harris ha perso consensi proprio tra i segmenti più cruciali della coalizione democratica: giovani e afroamericani. A Dearborn, città a forte presenza araba, Trump e Jill Stein hanno raccolto insieme quasi il 70% dei voti, ribaltando l’esito del 2020. In Michigan, stato decisivo, ha pesato sia la delusione per la linea filo-israeliana dei democratici sia l’assenza di un vero dialogo con le comunità musulmane, mentre Trump non ha esitato a incontrare imam e leader locali. Più in generale, nei sondaggi pre-elettorali fino al 39% degli elettori in alcuni swing states dichiarava di preferire una politica più dura verso Israele. Trump ha fiutato il malcontento e, pur con molte ambiguità, si è presentato come candidato “di pace”, guadagnando voti chiave. Gaza non è stata l’unica variabile del risultato, ma ha certamente contribuito a ridisegnare coalizioni e a spostare equilibri in stati cruciali.
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Trump cambia posizione sull’Ucraina: “Può vincere la guerra contro la Russia”. Il presidente americano abbandona la richiesta di cessioni territoriali e dichiara che Kiev può riconquistare tutti i territori occupati con il sostegno europeo.
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Jimmy Kimmel torna in tv con ascolti record. Il conduttore ha registrato 6,3 milioni di telespettatori nonostante il boicottaggio di circa un quarto delle affiliate ABC.