Trump contro Harvard: tagli, indagini e stop agli studenti stranieri
Nel nostro approfondimento settimanale parliamo dello scontro aperto fra Donald Trump e l'università di Harvard
L’università di Harvard è diventata il principale bersaglio della campagna portata avanti dall’amministrazione del presidente Donald Trump. L’offensiva, inizialmente giustificata come risposta all’antisemitismo nei campus universitari, si è rapidamente estesa a una serie di provvedimenti che coinvolgono diverse agenzie federali e colpiscono in profondità la governance, i finanziamenti e le politiche accademiche dell’ateneo.
Le misure adottate includono il congelamento o la revoca di oltre 4 miliardi di dollari in fondi pubblici, almeno otto inchieste federali avviate da sei agenzie governative e la decisione di revocare la certificazione che consente a Harvard di accogliere studenti internazionali. Quest’ultimo provvedimento è già stato sospeso da una giudice federale il giorno successivo, in seguito a una causa intentata dall’università. La misura avrebbe obbligato circa 6.800 studenti stranieri – oltre un quarto della popolazione studentesca – ad abbandonare immediatamente il campus.
Ma come siamo arrivati a questo punto?
Il 11 aprile 2025, la Joint Task Force to Combat Antisemitism, un gruppo coordinato dal Dipartimento della Giustizia con l’obiettivo di combattere l’antisemitismo, ha inviato a Harvard una lettera contenente dieci richieste, tra cui il divieto di ammettere studenti “ostili ai valori americani”, l’audit ideologico di studenti e docenti e rapporti trimestrali sull’allineamento dell’università agli indirizzi federali. Il 14 aprile Harvard ha annunciato di non voler soddisfare queste richieste e il 21 aprile ha presentato una causa in un tribunale federale del Massachusetts.
Il 14 aprile, in risposta al rifiuto dell’università, l’amministrazione ha annullato 2,2 miliardi di dollari in finanziamenti per la ricerca, principalmente provenienti dai National Institutes of Health. Il 22 aprile sono stati congelati altri 1 miliardo di dollari destinati a partner di ricerca affiliati ad Harvard, tra cui il Brigham and Women’s Hospital. Il 13 maggio, altri 450 milioni di dollari in finanziamenti multi-agenzia sono stati tagliati, mentre il 19 maggio sono stati annullati 60 milioni in sovvenzioni provenienti dai Centers for Disease Control and Prevention.
Il 5 maggio, Harvard è stata formalmente esclusa da tutti i futuri finanziamenti federali. La comunicazione, arrivata dalla segretaria all’Istruzione Linda McMahon, non menzionava né l’antisemitismo né le questioni legate all’identità di genere, ma riprendeva le consuete lamentele presidenziali contro l’ateneo, pubblicate anche sui social media.
Parallelamente ai tagli ai finanziamenti, l’amministrazione ha avviato numerose indagini. Il 3 febbraio, il Dipartimento della Salute ha aperto un’indagine sulle cerimonie di laurea alla Harvard Medical School, dopo la pubblicazione su New York Post di un articolo che accusava alcuni studenti di aver mostrato simboli a favore della Palestina. Il 19 aprile, l’inchiesta è stata ampliata a tutte le attività dell’università fatte dopo il 7 ottobre 2023, data degli attacchi terroristici di Hamas in Israele.
Il 10 marzo, l’Ufficio per i Diritti Civili del Dipartimento dell’Istruzione ha avvertito Harvard, insieme ad altre 59 università, di possibili sanzioni per presunti episodi di antisemitismo. Il 31 marzo, la task force federale ha annunciato la revisione di circa 9 miliardi di dollari in contratti e sovvenzioni federali all’università, sostenendo che Harvard non stesse facendo abbastanza per contrastare l’antisemitismo.
Altre indagini hanno riguardato l’uso di criteri etnici nella selezione degli articoli presso la Harvard Law Review (28 aprile), le politiche di ammissione degli studenti (2 maggio), e presunti abusi della normativa federale in materia di finanziamenti (12 maggio), con l’apertura di un’indagine da parte del Dipartimento della Giustizia basata sul False Claims Act.
Il 16 aprile, la segretaria alla Sicurezza Interna Kristi Noem ha scritto all’università minacciando l’esclusione dal programma per studenti stranieri e ha richiesto documentazione dettagliata sugli studenti titolari di visto. Il giorno successivo, il Dipartimento dell’Istruzione ha aperto un’indagine sulle donazioni estere ricevute da Harvard, accusandola di dichiarazioni incomplete. Il 25 aprile, la Equal Employment Opportunity Commission ha iniziato a indagare su presunte discriminazioni nei confronti di candidati bianchi, asiatici, uomini ed eterosessuali nei processi di assunzione accademica.
Il 22 maggio, il Dipartimento della Sicurezza Interna ha revocato la certificazione del programma che consente a Harvard di iscrivere studenti stranieri, motivando la decisione con la mancata collaborazione dell’università e con l’accusa di creare un ambiente “ostile agli studenti ebrei” e favorevole a “simpatizzanti di Hamas”. La lettera richiedeva entro 72 ore la consegna di tutti i documenti relativi a comportamenti illegali, violenti o intimidatori da parte degli studenti stranieri negli ultimi cinque anni, inclusa la partecipazione a proteste.
Il 23 maggio, Harvard ha intentato una nuova causa contro l’amministrazione Trump, definendo la decisione una “ritorsione evidente” per aver esercitato il proprio diritto costituzionale alla libertà accademica. Nello stesso giorno, la giudice federale Allison D. Burroughs ha emesso un’ordinanza temporanea di sospensione del provvedimento, ritenendo che la sua applicazione avrebbe causato “danni immediati e irreparabili” all’università. Un’udienza è fissata per il 29 maggio.
Il presidente di Harvard, Alan Garber, ha definito “illegale e ingiustificata” l’azione del governo, sottolineando come metta a rischio il futuro di migliaia di studenti e studiosi provenienti da 140 Paesi. La decisione è stata criticata anche da altri accademici. Jason Furman, docente della Kennedy School ed ex consigliere economico dell’amministrazione Obama, ha dichiarato: “Gli studenti internazionali sono una parte essenziale dell’università e apportano un enorme contributo agli Stati Uniti”. Sulla stessa linea, Vincent Pons della Harvard Business School ha sostenuto che la misura è un pretesto per colpire un’istituzione percepita come “contropotere” e ha denunciato un rischio per le libertà accademiche fondamentali.
La Casa Bianca, tramite la portavoce Abigail Jackson, ha replicato affermando che “Harvard dovrebbe preoccuparsi di più di porre fine al flagello degli agitatori antiamericani, antisemiti e pro-terroristi” e ha definito le cause intentate dall’università “pretestuose”. Il Dipartimento della Sicurezza Interna ha aggiunto che “l’iscrizione degli studenti stranieri è un privilegio, non un diritto”, ribadendo l’intenzione dell’amministrazione di riformare il sistema dei visti.
L’impatto del provvedimento minacciato è rilevante anche dal punto di vista economico. Harvard, pur disponendo di ampie risorse (ha emesso 1,2 miliardi di dollari in obbligazioni nei primi mesi del 2025), dipende in larga misura dalle rette pagate dagli studenti internazionali, in particolare nei programmi post-laurea. Inoltre, la loro presenza è centrale per la vocazione globale dell’ateneo e per il mantenimento della sua reputazione internazionale.
Nel complesso, la campagna contro Harvard si inserisce in una più ampia strategia politica dell’amministrazione Trump volta a ridefinire il ruolo e l’autonomia delle università americane. Il chiaro obiettivo è di ridurre l’influenza delle politiche progressiste nelle università, già bersaglio di critiche per la loro attenzione alla diversità e all’inclusione. L’Ivy League è stata più volte indicata da Trump come esempio di “élite woke” disconnesse dai valori americani.
Harvard non è la sola nel mirino: anche la Columbia University è stata oggetto di misure simili, e diversi esponenti dell’amministrazione hanno minacciato ulteriori provvedimenti contro altre istituzioni accademiche. Tuttavia, il caso Harvard è il banco di prova più emblematico dello scontro in corso tra governo federale e autonomia universitaria in quanto è l’università con le maggiori risorse per opporsi alla Casa Bianca. L’esito delle vertenze legali in corso potrà incidere profondamente sugli equilibri tra potere politico e istituzioni accademiche negli Stati Uniti.
Le altre notizie della settimana
Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha avviato l’archiviazione dei decreti di riforma della polizia a Minneapolis e Louisville, attuate dopo le proteste del 2020. La decisione, arrivata a pochi giorni dal quinto anniversario della morte di George Floyd, riflette la nuova linea della presidenza Trump, che contesta la validità delle indagini federali sulle violazioni dei diritti civili. Critiche da parte dei sostenitori delle riforme, mentre alcune autorità locali, come in Minnesota, proseguiranno con misure correttive a livello statale.
Il leader repubblicano al Senato, John Thune, ha lanciato un ultimatum a Vladimir Putin: se non presenterà una proposta seria per un cessate il fuoco immediato con l’Ucraina, il Senato procederà con nuove sanzioni contro la Russia. Un disegno di legge bipartisan, già sostenuto da 80 senatori, prevede sanzioni aggiuntive e dazi del 500% sui beni importati da Paesi che acquistano petrolio russo. L’obiettivo è aumentare la pressione economica su Mosca per costringerla ad avviare negoziati in buona fede e scoraggiare eventuali nuove offensive dopo un accordo di pace.
L’iniziativa ha però suscitato perplessità all’interno dello stesso Senato: il Segretario di Stato Marco Rubio ha avvertito che minacciare nuove sanzioni potrebbe spingere la Russia a interrompere ogni dialogo. Nonostante ciò, cresce tra i senatori – sia repubblicani che democratici – la spinta per un’azione rapida.
La Camera dei Rappresentanti ha approvato di misura il maxi-disegno di legge fiscale “One Big Beautiful Bill Act”, fortemente voluto da Donald Trump. Il testo, passato con solo un voto di scarto (215 a 214), rende permanenti i tagli fiscali del 2017, introduce requisiti più severi per accedere a Medicaid e prevede tagli ai crediti per l’energia verde. Dopo settimane di tensioni interne al Partito Repubblicano, un compromesso sulla controversa detrazione SALT ha alzato il tetto a 40.000 dollari per i redditi medio-alti, sbloccando l’accordo.
Tra le misure più discusse ci sono l’aumento del tetto del debito federale di 4.000 miliardi, lo stop ai fondi Medicaid per terapie di transizione di genere (anche per adulti), e l’introduzione dei “conti Trump” da 1.000 dollari per ogni neonato tra il 2025 e il 2029. Il provvedimento ora passa al Senato, dove potrebbero arrivare modifiche sostanziali, rischiando però di riaprire lo scontro tra le due camere.
Durante un incontro alla Casa Bianca con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, Donald Trump ha proiettato un video che, secondo lui, documenterebbe violenze contro cittadini bianchi in Sudafrica, generando forte tensione diplomatica. Ramaphosa, visibilmente a disagio, ha preso le distanze dal contenuto, definendolo non rappresentativo della politica del governo sudafricano. L’episodio, che ha ricordato per tono il controverso incontro con Zelensky, si inserisce nella narrativa promossa da Trump sul presunto genocidio dei bianchi, già usata in passato per giustificare la concessione dello status di rifugiati e il taglio degli aiuti al Sudafrica.
Donald Trump ha minacciato di imporre da subito un dazio del 50% su tutte le importazioni dall’Unione Europea, scatenando preoccupazioni diffuse tra economisti, mercati e leader internazionali. La misura, che segue una serie di annunci contraddittori in materia commerciale, potrebbe spingere l’Europa in recessione, rallentare la crescita globale e far aumentare l’inflazione negli Stati Uniti. Gli analisti la interpretano come una mossa di pressione, ma osservano come l’incertezza e l’imprevedibilità della linea economica americana stiano già scoraggiando gli investimenti nel Paese. Bruxelles ha intanto preparato contromisure, con possibili dazi su servizi americani come tecnologia e finanza, settori chiave per l’economia USA.
Quello che sta succedendo nell’America di Trump sta sempre più venendo ad assomigliare all’autocrazia di Putin. Quello che sorprende che non ci siano reazioni significative in quella che si riteneva, pur con tutti i suoi inevitabili limiti, una delle patrie della democrazia, soprattutto da parte di quella “woke culture” ( una delle maggiori cause a mio parere del successo elettorale di trumpiano) così pronta prima, quando non rischiava nulla, a scendere in piazza per motivi che con la democrazia c’entravano poco più di niente.