Trump entra in guerra contro l'Iran
Nella notte è stata condotta un'operazione militare contro le basi nucleari iraniani. Cosa aspettarsi ora?
Nota di servizio: abbiamo fornito in questa newsletter i primissimi aggiornamenti dopo l’attacco di stanotte. Tutti gli aggiornamenti arriveranno poi in tempo reale su FocusAmerica.it.
Nella corso della notte tra sabato e domenica gli Stati Uniti hanno lanciato un attacco militare diretto contro l’Iran, colpendo tre installazioni nucleari a Fordo, Natanz e Isfahan. Si tratta della prima azione di guerra esplicita condotta da Washington nell’ambito del conflitto in corso tra Iran e Israele.
Cos’è successo stanotte
Questa notte il presidente Donald Trump ha autorizzato l’operazione dopo giorni di crescenti pressioni politiche e militari, culminate con una riunione d’emergenza nella White House Situation Room, svoltasi poco dopo il tramonto di sabato. L’attacco è stato portato a termine da bombardieri B-2 partiti da una base nell’Indiana e da sottomarini posizionati nel Golfo Persico, con il supporto di cyber attacchi finalizzati a disattivare temporaneamente i sistemi radar e di difesa aerea iraniani. L’obiettivo ufficiale, secondo quanto dichiarato dal Pentagono, era “danneggiare in modo significativo la capacità dell’Iran di arricchire uranio”, senza colpire centri abitati o provocare un’escalation non calcolata. L’operazione è durata meno di due ore.
Secondo fonti militari iraniane citate dai media statunitensi, l’attacco ha causato almeno una decina di morti tra il personale tecnico e militare presente nei siti. A Natanz, uno dei principali impianti per l’arricchimento dell’uranio, sono stati segnalati danni estesi agli edifici di superficie, mentre a Fordo – scavato in profondità sotto una montagna – i sistemi di ventilazione e le connessioni elettriche sono stati temporaneamente disattivati. A Isfahan, sede di un centro di ricerca e di produzione per il combustibile nucleare, si è registrata una potente esplosione, visibile a chilometri di distanza.
La risposta iraniana non si è fatta attendere. Nelle prime ore del mattino, Teheran ha lanciato diversi missili balistici verso il territorio israeliano, puntando su Tel Aviv, Haifa e la zona meridionale del Negev. Le sirene d’allarme hanno risuonato in tutto il paese e le autorità israeliane hanno ordinato ai cittadini di recarsi nei rifugi. Il sistema di difesa Iron Dome ha intercettato parte dei missili, ma alcune testate hanno colpito obiettivi secondari senza provocare vittime. In parallelo, l’Iran ha dichiarato di aver attivato lo “stato di massima allerta” su tutto il territorio nazionale.
La decisione del presidente Trump è maturata dopo giorni di tensione crescente. Giovedì, l’intelligence statunitense aveva rilevato segnali di preparativi militari attorno ai siti nucleari iraniani, mentre i rapporti satellitari indicavano una possibile accelerazione delle attività di arricchimento. Da qui la decisione di colpire in modo preventivo.
L’attacco non è stato preceduto da alcun annuncio pubblico, né è stato autorizzato dal Congresso. Alcuni parlamentari, informati solo a operazione in corso, hanno espresso sorpresa e preoccupazione per le implicazioni costituzionali e strategiche. In assenza di una dichiarazione formale di guerra, la mossa solleva interrogativi sulla legalità dell’intervento e sulla possibilità di una più ampia escalation militare.
Cosa dice il Congresso
L’attacco ha provocato una reazione immediata all’interno del Congresso. Se da un lato i leader repubblicani hanno elogiato l’operazione come un atto necessario e “chirurgico”, molti esponenti democratici – e alcuni repubblicani – hanno sollevato gravi dubbi sulla sua legittimità costituzionale, denunciando l’assenza di un’autorizzazione formale da parte del potere legislativo.
I vertici repubblicani, il presidente della Camera Mike Johnson e il leader della maggioranza al Senato John Thune, erano stati informati in anticipo e hanno sostenuto con forza la decisione del presidente. Secondo Thune, l’Iran aveva “rifiutato ogni via diplomatica” e l’intervento militare rappresentava l’unico modo per fermare l’avanzamento del suo programma nucleare. Johnson ha definito l’azione “coerente con la politica estera di forza” di Trump, aggiungendo che “un Iran dotato di armi nucleari non sarà tollerato.”
Anche i repubblicani più noti per il loro interventismo, come i senatori Lindsey Graham e Roger Wicker, hanno elogiato la prontezza del presidente, definendo la decisione “deliberata e corretta”. Secondo Wicker, “la sicurezza degli alleati e la stabilità del Medio Oriente” impongono scelte difficili ma necessarie. Tuttavia, non tutti i parlamentari repubblicani hanno approvato la mossa. Thomas Massie, deputato del Kentucky, ha definito l’attacco “non costituzionale” e ha presentato una risoluzione bipartisan per impedire l’uso delle forze armate contro l’Iran senza una specifica autorizzazione del Congresso. Sulla stessa linea si è espresso Warren Davidson, deputato dell’Ohio e tradizionalmente allineato con Trump, dichiarando che “per quanto giusta, è difficile immaginare una giustificazione costituzionale per questa decisione.”
Sul fronte democratico, la reazione è stata nettamente critica. Il leader della minoranza alla Camera Hakeem Jeffries ha accusato il presidente di aver “ingannato il paese sulle sue intenzioni” e di aver messo a rischio il coinvolgimento degli Stati Uniti in “una guerra disastrosa in Medio Oriente”. Il leader al Senato Chuck Schumer ha chiesto un voto immediato su una risoluzione – presentata dal senatore Tim Kaine – per imporre l’obbligo di autorizzazione parlamentare prima di qualsiasi intervento militare contro l’Iran. Schumer ha denunciato l’aumento del rischio di “una guerra più ampia, lunga e devastante.” Numerosi democratici hanno insistito sulla costituzionalità dell’azione. Il deputato Jim Himes, membro della Commissione Intelligence, ha sottolineato che “solo il Congresso ha il potere di dichiarare guerra” e ha messo in guardia contro il rischio di un’escalation non calcolata. La vicepresidente della Camera Katherine Clark ha parlato di “decisione unilaterale non autorizzata”, che “espone il personale militare e diplomatico a un pericolo crescente”.
Anche tra i democratici progressisti si è levata una voce dura e immediata: Alexandria Ocasio-Cortez ha definito l’operazione “motivo di impeachment”, accusando Trump di aver “impulsivamente rischiato di trascinare il paese in una guerra che potrebbe durare generazioni”. Altri, come Bernie Sanders e Ro Khanna, hanno fatto appello a un ritorno urgente del Congresso per bloccare l’azione militare. Khanna ha ricordato che Trump è salito al potere criticando le guerre “infinite” dei presidenti precedenti, e ha avvertito che “questa è la prima vera crepa nella base MAGA.”
Cosa succederà ora
La decisione di Donald Trump di colpire Fordo, Natanz e Isfahan rappresenta una delle più grandi scommesse geopolitiche del suo secondo mandato. Ora si apre una fase di forte incertezza, in cui le possibilità spaziano tra un’escalation militare su vasta scala e un ritorno alla diplomazia sotto costrizione.
L’obiettivo dichiarato dell’amministrazione è stato colpire duramente e in modo preventivo il cuore del programma nucleare iraniano. Trump ha affermato che la missione ha distrutto le capacità di arricchimento dell’Iran, ma resta incerto se i danni inflitti siano tali da rendere impossibile una ricostruzione, o se Teheran riuscirà a riattivare il programma in modo clandestino.
La Casa Bianca ha definito l’attacco una “operazione limitata”, senza l’intenzione di rovesciare il regime o dichiarare guerra. Tuttavia, l’Iran potrebbe non interpretare l’azione nello stesso modo. Secondo analisti ed ex funzionari statunitensi, la reazione iraniana sarà un test decisivo: se Teheran risponderà con attacchi diretti a obiettivi americani o ai suoi alleati, il conflitto rischia di trasformarsi rapidamente in una guerra regionale.
Il pericolo più immediato è rappresentato dai 40.000 militari statunitensi dispiegati nella regione, in basi situate in Iraq, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Tutti sono potenzialmente esposti a ritorsioni iraniane sotto forma di missili, droni o attacchi da parte di milizie alleate di Teheran, come quelle attive in Iraq, Siria e Libano. Una risposta iraniana contro questi obiettivi spingerebbe Washington a ulteriori azioni militari.
Anche il traffico nel Golfo Persico è sotto osservazione. Il passaggio attraverso lo Stretto di Hormuz – da cui transita circa un quarto del commercio mondiale di petrolio – potrebbe essere compromesso. L’Iran ha già minacciato di disseminarlo di mine navali, mettendo a rischio sia le navi civili sia le flotte militari americane, e facendo temere un nuovo shock petrolifero globale.
Sul piano politico, Trump ha chiarito che non intende fermarsi. Nel discorso pronunciato dopo l’attacco, ha avvertito che se l’Iran non si piegherà alla richiesta di “pace”, subirà conseguenze “molto peggiori” di quanto visto finora. Ha lasciato intendere che l’eliminazione della leadership iraniana o ulteriori bombardamenti potrebbero essere presi in considerazione.
Allo stesso tempo, le reazioni all’interno dell’Iran restano difficili da prevedere. Il regime potrebbe scegliere una risposta simbolica e contenuta, simile a quella adottata nel 2020 dopo l’uccisione del generale Soleimani, oppure optare per un’escalation più ampia per difendere il proprio prestigio e non mostrare debolezza. Tuttavia, il sistema di potere iraniano è oggi più isolato che mai: ha perso alleati regionali, ha subito gravi danni militari, e la sua popolazione è segnata da anni di repressione e crisi economica.
Un altro scenario possibile è il ritorno alla diplomazia. Prima dell’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto, Teheran aveva lasciato intendere di essere disposta a trattare, a patto che cessassero i bombardamenti israeliani. Ma la possibilità di un cessate il fuoco dipende dalla volontà del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha espresso più volte l’intenzione di distruggere completamente le infrastrutture nucleari iraniane, anche a costo di bombardare obiettivi civili e industriali.
Infine, resta da verificare se l’azione statunitense abbia davvero compromesso in modo irreversibile la capacità dell’Iran di ottenere l’arma nucleare. Se Teheran conservasse una parte delle sue riserve di uranio arricchito al 60% o riuscisse a salvare parte delle centrifughe, potrebbe riprendere il programma in segreto e con maggiore determinazione. In tal caso, l’attacco americano rischierebbe di ottenere l’effetto opposto: accelerare la corsa dell’Iran verso la bomba, seguendo il modello nordcoreano.
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