Trump sfida l'idea di Europa
Washington appoggia i "partiti patriottici" del continente e accusa Bruxelles di calpestare i principi democratici
Questa settimana la Casa Bianca ha pubblicato la nuova Strategia di Sicurezza Nazionale (NSS). Si tratta del dossier con cui periodicamente l’esecutivo definisce le sue priorità strategiche: un obbligo introdotto dal Goldwater–Nichols Act del 1986, pensato per costringere ogni presidenza a mettere nero su bianco obiettivi diplomatici e risorse reali. Rispetto alla prassi burocratica del passato, però, il testo firmato da Donald Trump ha scatenato un certo dibattito mediatico, dal momento che il presidente ha trasformato queste pagine in un documento apertamente programmatico, usandolo per formalizzare una visione del mondo in netta rottura con la tradizione post-Guerra Fredda, soprattutto nei confronti dell’Europa.
Alcuni elementi centrali del documento
Il documento segna infatti la volontà di superare quell’universalismo liberale che, per decenni, ha presentato l’egemonia americana come custodia di un ordine internazionale “a guida valoriale”. L’NSS dichiara esplicitamente che l’idea di una “dominazione americana permanente” su scala globale è stata un errore delle élite passate: d’ora in poi, si legge, gli affari degli altri paesi riguarderanno gli Stati Uniti solo se le loro attività minacceranno direttamente gli interessi americani. Più che di una ritirata, si tratta dunque di una selettività strategica: l’intervento viene giustificato non da principi universali, ma da un calcolo di sicurezza e potenza. Questa impostazione emerge con chiarezza nell’Emisfero Occidentale, che il documento torna a trattare come un’area di preminenza imprescindibile.
Washington rivendica una “preminenza” nel continente americano come condizione della propria sicurezza e prosperità, e lega i termini delle alleanze e degli aiuti alla riduzione dell’influenza avversaria sulle infrastrutture critiche: controllo di installazioni militari, porti, snodi logistici e, più in generale, acquisizione di asset strategici. Come sottolinea POLITICO, è una riformulazione della Dottrina Monroe (ovvero il principio, formulato nel 1823, secondo cui le Americhe costituiscono una sfera di influenza esclusiva degli Stati Uniti, sottratta all’ingerenza delle potenze esterne), che mira a impedire in particolare l’espansione cinese nella zona. In questo quadro, la strategia fonde politica estera e guerra culturale interna. Ricorrono formule come la “restaurazione e reinvigorimento della salute spirituale e culturale americana”, la celebrazione degli “eroi del passato” e la centralità di “famiglie tradizionali forti”. Non sono dettagli ornamentali: il potenziamento di Guardia Costiera e Marina viene presentato come strutturale, finalizzato a controllare rotte marittime e confini, frenare la migrazione irregolare, contrastare traffici di esseri umani e droga e, se necessario, ricorrere anche all’uso di “lethal force” contro i cartelli. Parallelamente, il documento parla di risorse strategiche (con un riferimento implicito a materiali come le terre rare) e di maggiori opportunità di investimento per aziende statunitensi nella regione, segnalando una concezione in cui sicurezza, economia e controllo dei flussi convergono in un’unica architettura.
Sul fronte asiatico, il testo abbandona la retorica più incendiaria e adotta un pragmatismo transazionale. La Cina viene trattata con cautela: l’obiettivo dichiarato è “riequilibrare” la relazione economica, puntando sulla reciprocità e mantenendo un commercio concentrato su settori non sensibili, fino a evocare una relazione “mutuamente vantaggiosa” con Pechino. La deterrenza, però, non scompare: cambia la cornice. Sulla questione di Taiwan, evidenzia The Economist, l’NSS è chirurgico. L’isola non viene valorizzata come democrazia da difendere, bensì come perno strategico e tecnologico: per la sua posizione al centro della “First Island Chain”, che incanala la capacità navale e aerea cinese, e per il ruolo nell’ecosistema globale dei semiconduttori. Di conseguenza, gli Stati Uniti promettono di mantenere forze sufficienti a scoraggiare un’aggressione, ma il messaggio agli alleati dell’Indo-Pacifico (Giappone, Corea del Sud, Filippine) resta netto: devono investire massicciamente nella propria difesa, concedere maggiore accesso a porti e basi e accettare il rischio di esporsi alle ritorsioni di Pechino per sostenere la strategia di contenimento. È un’alleanza che tende a presentarsi sempre meno come comunità di valori e sempre più come architettura di sicurezza marittima e industriale.
La sfida all’Europa
Il punto politicamente più rilevante del documento è la visione dell’Europa che ne emerge. In continuità con l’attacco ideologico portato avanti da JD Vance alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco nel febbraio scorso, l’amministrazione Trump accusa le attuali leadership del continente di essere “governi di minoranza instabili” che spesso “calpestano i principi democratici” per contenere l’opposizione politica. Il riferimento è ai tentativi messi in atto da alcune democrazie europee per limitare l’ascesa delle destre radicali, interpretati dall’NSS come pratiche di censura e soppressione del dissenso. La risposta statunitense, si legge, dovrebbe consistere nel “coltivare la resistenza all’attuale traiettoria” dell’Europa dall’interno delle singole nazioni, riconoscendo e incoraggiando il ruolo dei cosiddetti “partiti patriottici europei” — come AfD in Germania o Reform UK nel Regno Unito — indicati come motivo di “grande ottimismo” per la loro crescente influenza politica.
Il documento richiama inoltre preoccupazioni legate all’identità culturale occidentale e ai flussi migratori. Secondo l’NSS, nel lungo periodo è “più che plausibile” che alcuni membri della NATO diventino a maggioranza non europea, esponendo il continente alla “cupa prospettiva di una cancellazione della civiltà”. In questa cornice, l’affidabilità di un partner strategico tende a essere ridefinita non tanto in base alla fedeltà a trattati e istituzioni comuni, quanto in relazione alla capacità di preservare una determinata identità civile e culturale, segnando una rottura con il lessico attraverso cui Washington ha tradizionalmente giustificato la coesione euro-atlantica.
Un ulteriore passaggio centrale riguarda il conflitto in Ucraina e, più in generale, l’atteggiamento nei confronti della Russia. In linea con la critica rivolta alle leadership europee, l’NSS afferma che è un “interesse fondamentale” degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità, sottolineando la distanza di Washington da funzionari europei accusati di nutrire “aspettative irrealistiche” sull’esito della guerra. La priorità americana non viene più individuata nella difesa dell’ordine internazionale basato sulle regole o nella vittoria di Kiev, bensì nel ripristino di una “stabilità strategica” con Mosca e nella riduzione del rischio di un’escalation più ampia sul continente. In questo quadro, il documento insiste anche sulla necessità di porre fine alla percezione — e di prevenire la realtà — di una NATO come alleanza in continua espansione, chiedendo agli Stati europei di assumersi la responsabilità primaria della propria difesa. Ne deriva una frattura evidente: mentre agli alleati viene richiesto di rafforzare le proprie capacità militari, la stessa cornice strategica ridimensiona la Russia come minaccia sistemica e attribuisce parte dell’attuale tensione a debolezze politiche e a errori di gestione diplomatica interni all’Europa.
Le reazioni e i commenti
Le prime reazioni europee hanno evidenziato un disagio profondo, ma anche il tentativo di evitare una rottura frontale. Interpellato sul documento, il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul ha ribadito che gli Stati Uniti restano un alleato essenziale sul piano della sicurezza, precisando però che questioni come la libertà di espressione o l’organizzazione delle società europee non rientrano in tale ambito. «Riteniamo di poter discutere e dibattere questi temi in modo del tutto autonomo», ha dichiarato, respingendo implicitamente l’idea di una legittimità americana a intervenire nel dibattito politico interno dell’Unione. Sul versante statunitense, la democratica Jeanne Shaheen, esponente di primo piano della Commissione Esteri del Senato, ha definito la strategia «piena di contraddizioni», accusando l’amministrazione Trump di indebolire gli alleati europei mentre ne chiede un maggiore impegno difensivo, e di ignorare la minaccia rappresentata da Russia e Cina pur rivendicando una postura “realista”.
Diversi osservatori hanno sottolineato come l’NSS vada oltre una semplice convergenza su singoli temi, come l’immigrazione, e delinei piuttosto un disegno di più ampio respiro. Secondo una analisi pubblicata da Deutsche Welle, la strategia alluderebbe a un tentativo di dividere l’Unione Europea lungo linee ideologiche, indebolendone la coesione per facilitarne il controllo politico. In questa chiave si collocano anche le critiche di Guntram Wolff, senior fellow del think tank Bruegel, secondo cui un attacco al mercato unico europeo equivale a colpire direttamente gli interessi delle imprese europee, fondate su catene del valore profondamente integrate. Wolff ha inoltre osservato che, sul piano della sicurezza, l’impostazione del documento finisce per allinearsi di fatto alle posizioni russe, ricordando come Vladimir Putin abbia più volte espresso una visione volta a ristabilire una sfera di influenza su larga parte dell’Europa centrale.
Una lettura ancora più severa emerge dai commenti della stampa internazionale. Le Monde ha definito l’NSS un manifesto politico del movimento MAGA, sottolineandone la debolezza concettuale e la tendenza a ignorare i grandi sconvolgimenti geopolitici, tecnologici e climatici in corso, preferendo concentrarsi su ossessioni identitarie e su una visione del mondo ridotta a conflitto culturale. In un’analisi simile, The Atlantic ha parlato di una strategia che prepara gli Stati Uniti alle minacce sbagliate, paragonandola a una moderna “linea Maginot”: un impianto pensato per fronteggiare pericoli in larga parte costruiti — come la presunta “cancellazione della civiltà” europea — mentre trascura rischi concreti e immediati legati alla competizione strategica con Cina e Russia, alla cybersicurezza e all’intelligenza artificiale. Ne emerge l’immagine di una politica estera che, più che rispondere alla realtà internazionale, tende a proiettare all’esterno un conflitto ideologico interno, con il rischio di accentuare la frammentazione dell’Occidente.
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