Un pontefice americano fra le divisioni dell'America e della sua Chiesa
Nel nostro approfondimento settimanale parliamo dell'elezione del nuovo papa nel delicato contesto della situazione religiosa americana.
L’elezione di Robert Francis Prevost al soglio pontificio, con il nome di Leone XIV, ha colto di sorpresa il mondo politico statunitense. Mai, prima d’ora, un cittadino americano era stato scelto come papa: una possibilità che, per decenni, era sembrata remota, se non impossibile. Eppure, Leone XIV è tutt’altro che un rappresentante dell’America “profonda”. La sua lunga permanenza all’estero — soprattutto in America Latina e poi in Vaticano — lo ha tenuto distante sia dalle dinamiche interne della politica statunitense, sia dalle tensioni che lacerano da anni la Chiesa cattolica d’oltreoceano.
Cattolicesimo e potere negli Stati Uniti
Per comprendere l’impatto potenziale del nuovo pontefice sulla scena americana, è necessario considerare il ruolo del cattolicesimo all’interno della società statunitense. Secondo il Pew Research Center, circa il 63% della popolazione si identifica come cristiana, ma solo il 20% è cattolica. I protestanti restano la maggioranza relativa con il 40%, mentre il resto della popolazione include persone senza affiliazione religiosa (circa il 29%), altre fedi cristiane e religioni non cristiane. In questo contesto, il cattolicesimo ha spesso avuto una voce minoritaria ma influente, soprattutto in momenti di convergenza politica con i cristiani evangelici, in particolare su tematiche morali ed etiche.
La simbologia religiosa, poi, riveste anche uno spazio nei rituali del potere. Lo stesso giuramento del presidente degli Stati Uniti, pur non obbligatorio su basi religiose, viene tradizionalmente prestato con la mano sulla Bibbia, spesso aperta su un versetto specifico scelto dal presidente eletto. Questo gesto sottolinea l’intreccio, ancora oggi potente, tra fede e politica. Un altro esempio emblematico è rappresentato dai National Prayer Breakfast, eventi annuali in cui il presidente e altri leader politici si uniscono pubblicamente in preghiera.
Anche la presente amministrazione ha una buona componente di cattolici. Lo è un terzo del governo Trump, fra cui ad esempio il vice-presidente JD Vance (una delle ultime persone a incontrare Papa Francesco) così come il Segretario di Stato Marco Rubio.
Scandali, crisi e svolta conservatrice
Negli ultimi decenni, però, la Chiesa cattolica americana ha subito forti scosse. Gli scandali legati agli abusi sessuali da parte del clero hanno prodotto un’ondata di indignazione e richieste di giustizia, con pesanti ripercussioni economiche: le diocesi hanno dovuto versare risarcimenti milionari, indebolendo strutturalmente l’istituzione. Questo ha accelerato una transizione verso una pastorale più rigida, meno tollerante verso i membri del clero coinvolti e più incline a sposare posizioni conservatrici, anche come reazione identitaria.
Parallelamente, si è acuito il divario tra le anime della Chiesa. Su questioni come aborto, diritti delle persone LGBTQ+, benedizione delle coppie omosessuali, immigrazione, ruolo delle donne e sinodalità, le fratture tra conservatori e progressisti sono diventate quasi insanabili. Tuttavia, proprio la rigidità su questi temi ha favorito un avvicinamento tra cattolici e cristiani evangelici di orientamento conservatore, generando un blocco culturale e politico coeso, su cui Donald Trump ha potuto contare nelle sue campagne elettorali.
Il peso geopolitico della fede
Durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, la Chiesa americana è stata tra le più generose nel sostegno finanziario al Vaticano, in particolare attraverso l’Obolo di San Pietro. Tuttavia, quella generosità non è stata sempre ricambiata con una reale influenza sulla linea teologica ed ecclesiologica della Chiesa universale. Al contrario, molte voci nell’episcopato statunitense hanno lamentato una marginalizzazione e chiesto, invano, un maggiore peso nelle scelte di Roma.
Questo sentimento di frustrazione è cresciuto durante il pontificato di Francesco. Se nel 2015, durante la sua visita negli Stati Uniti, fu accolto da folle entusiaste, nel tempo le critiche al suo approccio inclusivo si sono moltiplicate. Temi come il cambiamento climatico, l’immigrazione e le aperture pastorali alle persone LGBTQ+ hanno suscitato malcontento nella parte più tradizionalista della Chiesa americana. I sondaggi lo hanno registrato: il 90% di favore tra i cattolici americani nel 2015 è sceso al 75% nel 2024.
Leone XIV e la destra religiosa
L’elezione di Leone XIV arriva dunque in un momento di forti tensioni. Il New York Times ha sottolineato, all’indomani della sua ascesa al Soglio Pontificio, l’importanza crescente della destra cattolica negli Stati Uniti e il ruolo che potrà avere questo nuovo papa nell’arginarla o nel dialogarvi. Il suo passato latinoamericano e la distanza dalla politica statunitense potrebbero aiutarlo a riportare una certa neutralità, ma sarà inevitabilmente tirato dentro un confronto che si fa sempre più ideologico.
Basti guardare a come la religione è entrata nei programmi politici. Il Project 2025, elaborato prima delle elezioni dalla Heritage Foundation come guida per una futura amministrazione repubblicana, si apre con un appello alla difesa dei “diritti individuali assegnati da Dio” e promuove una visione tradizionalista della famiglia, escludendo dalle tutele pubbliche le famiglie omogenitoriali o monoparentali. Nel capitolo curato da Roger Severino sul Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, si invoca una definizione biblica di matrimonio, in contrasto con il Respect for Marriage Act, che tutela le unioni tra persone dello stesso sesso e quelle interrazziali.
Donald Trump ha saputo cavalcare questa convergenza tra religione e politica, presentandosi come paladino della libertà religiosa contro quella che ha definito la “dittatura del politicamente corretto”. Alcuni vescovi lo hanno apertamente sostenuto, come Joseph Strickland, che ha partecipato a eventi in cui veniva messa in discussione, senza prove, la regolarità delle elezioni del 2020. In questo clima, il confine tra fede e potere politico si fa sempre più sottile, e il nuovo papa Leone XIV si troverà inevitabilmente coinvolto nel delicato compito di ricucire una frattura ormai radicata.
Come ha sottolineato il New York Times, senza dubbio il nuovo pontefice ha un'immagine sicuramente diversa rispetto al tycoon (che immediatamente si è congratulato per la sua elezione) e si è mostrato contrario ad alcune sue politiche, come quelle relative a immigrazione, armi e clima. Proprio sulle colonne dello stesso giornale, il fratello di Leone XIV ha sottolineato come Prevost “non sia felice di come gli Stati Uniti stiano gestendo l’immigrazione”. “Non so quanto oltre si spingerà”, ha poi affermato, “ma sicuramente non resterà in silenzio”. Non è un caso che alcuni esponenti dell’ala destra del Partito Repubblicano, come Laura Loomer, del resto, abbiano criticato apertamente il Santo Padre, parlando di un “altro fantoccio marxista in Vaticano”, anche se vi sono palesi evidenze sul fatto che la nuova linea politica sarà sicuramente più moderata rispetto a quella di Francesco.
Biden e non solo. Gli “altri” cattolici americani
D’altro canto, però, il mondo cattolico americano non è certamente un monolite. Anzi, per una particolare curiosità, gli unici due presidenti di questa confessione sono stati proprio dei Democratici: John Fitzgerald Kennedy e Joe Biden. Soprattutto quest’ultimo, però, ha mostrato sicuramente un volto più liberal del mondo religioso americano. Lo scorso presidente, ad esempio, è sempre stato in prima linea nel difendere il diritto all’aborto, così come i diritti delle persone LGBTQ+ e delle altre minoranze religiose.
Queste posizioni hanno generato una crescente tensione con una parte dell’episcopato statunitense, che ha più volte criticato l’incompatibilità tra alcune scelte politiche del presidente e i principi della dottrina cattolica. In particolare, l’appoggio esplicito di Biden al Respect for Marriage Act e il suo rifiuto di sostenere restrizioni federali sull’aborto hanno spinto alcuni vescovi a metterne in discussione persino l’accesso all’eucaristia. Al tempo stesso, però, una parte significativa del laicato cattolico continua a identificarsi con l’approccio inclusivo e sociale promosso dai Democratici, soprattutto su temi come l’accoglienza dei migranti, la lotta alla povertà e la giustizia razziale.
Le altre notizie della settimana
Negli Stati Uniti è in corso la più grave epidemia di morbillo degli ultimi trent’anni, con oltre 1.000 casi confermati in trenta Stati e almeno tre decessi, due dei quali in Texas, epicentro del contagio. La diffusione è aggravata dalla crescente sfiducia nei confronti dei vaccini e da dichiarazioni fuorvianti di esponenti dell’amministrazione Trump, come il segretario alla Salute Robert Kennedy Jr, noto per le sue posizioni antivacciniste. I tagli alla sanità pubblica e le deroghe vaccinali religiose o personali stanno ostacolando la risposta all’emergenza.
Alla Camera, i repubblicani faticano a trovare un’intesa sul pacchetto economico promosso da Trump, mettendo a rischio l’approvazione prima della pausa del Memorial Day. Al centro dello scontro ci sono i controversi tagli a Medicaid (che garantisce protezione sanitaria agli anziani) e le modifiche al tetto delle detrazioni fiscali statali e locali (SALT). I deputati più moderati, soprattutto del Nord-Est, si oppongono a misure considerate troppo drastiche e prive di reali possibilità di passare al Senato.
Un recente rapporto del Congressional Budget Office ha aggravato la tensione, stimando che l’introduzione dei tetti di spesa a Medicaid porterebbe a un risparmio federale di 225 miliardi di dollari, ma priverebbe dell’assicurazione sanitaria 1,5 milioni di cittadini entro il 2034. Intanto, i conservatori del Freedom Caucus chiedono di non arretrare, mentre cresce la pressione sulle commissioni per finalizzare una proposta condivisa nei prossimi giorni.
Con un voto risicato (211 a 206), la Camera ha approvato la proposta voluta da Donald Trump per rinominare ufficialmente il Golfo del Messico in "Golfo d’America". Presentata dalla deputata Marjorie Taylor Greene, la misura obbligherebbe tutte le mappe e i documenti federali a recepire il nuovo nome, affidando il compito al Segretario degli Interni. La proposta ha suscitato forti critiche da parte dei democratici, che l’hanno bollata come puramente simbolica e inutile, e ha visto una sola defezione tra i repubblicani, quella di Don Bacon. L’approvazione definitiva rimane in bilico: il Senato non ha ancora deciso se prenderla in esame.
Joe e Jill Biden sono tornati in pubblico con un’intervista a The View, la prima dopo la fine del mandato alla Casa Bianca. L’ex presidente si è assunto la responsabilità della vittoria di Trump, attribuendola a preoccupazioni diffuse tra gli elettori su confini e inflazione, ma ha respinto con fermezza le accuse di declino cognitivo.
Ha ricordato i risultati ottenuti durante il suo mandato, dalle infrastrutture alla sanità, e ha definito “sessista” la sconfitta di Kamala Harris. Jill Biden ha difeso il marito dalle critiche, smentendo voci di isolamento e annunciando il proseguimento del suo impegno nella ricerca sulla salute femminile. L’intervista segna un tentativo di rilancio dell’immagine dei Biden in un contesto politico sempre più difficile.
È stato ufficialmente siglato un accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito, il primo di rilievo dopo l’introduzione dei dazi globali voluti dall’amministrazione Trump. L’intesa, che prevede tagli ai dazi su auto, acciaio e attrezzature agricole, oltre a norme comuni su servizi digitali e standard sanitari, potrebbe diventare un modello per i futuri negoziati bilaterali.
I mercati hanno reagito positivamente, con rialzi su indici europei e statunitensi e un rafforzamento del dollaro. Il surplus commerciale americano con Londra – tra i pochi con saldo positivo – e il pragmatismo mostrato dal premier britannico Starmer hanno favorito il buon esito del negoziato. Washington punta ora a replicare il formato con altri 16 partner, inclusi UE, Giappone, India e Brasile.
La Corte Suprema ha autorizzato l’amministrazione Trump ad applicare il divieto di servizio militare per le persone transgender, sospendendo un’ingiunzione precedentemente emessa da un tribunale federale. La decisione, non motivata e firmata solo dai tre giudici progressisti in dissenso, lascia in vigore l’ordine esecutivo di Trump, che considera l’identità di genere non conforme al sesso biologico “in conflitto con lo stile di vita militare”.
La politica, già attuata dal Pentagono, prevede l’espulsione dei militari transgender. Il caso è al centro di un ricorso promosso da sette soldati e un’associazione LGBTQ+, tra cui figura la comandante Emily Shilling, veterana della Marina con 60 missioni di combattimento e 20 milioni di dollari di formazione. La Corte ha lasciato intendere che la decisione definitiva arriverà solo dopo l’esame nel merito da parte dei tribunali inferiori.