Una poltrona scomoda: Trump minaccia Powell, ma non può licenziarlo
Tassi di interesse e politica monetaria: perché la Fed difende la sua indipendenza dalle pressioni della Casa Bianca.
Da mesi il presidente Donald Trump attacca pubblicamente Jerome Powell, il capo della Federal Reserve (la banca centrale degli Stati Uniti), accusandolo di mantenere i tassi di interesse troppo alti. In un contesto economico in cui l’inflazione statunitense si è moderata rispetto ai picchi post-pandemici, Trump vorrebbe stimolare più crescita abbassando drasticamente il costo del denaro. Il presidente ha persino dichiarato che i tassi “dovrebbero essere attorno all’1%”, criticando la scelta della Fed di tenerli nel range attuale (circa 4,25-4,5%). Di fatto, Trump ha più volte preteso da Powell un taglio immediato di almeno 3 punti percentuali.
La Federal Reserve sotto Powell, tuttavia, ha mantenuto un approccio prudente, lasciando i tassi su livelli elevati per frenare l’economia quanto basta a contenere l’inflazione. Powell e i suoi colleghi alla Fed temono che allentare la politica monetaria troppo presto potrebbe riaccendere le pressioni inflazionistiche, specie in seguito alle politiche commerciali aggressive di Trump (ad esempio i dazi doganali) che potrebbero far salire i prezzi. In sostanza, la Fed sta tenendo i tassi fermi in attesa di dati più chiari sull’andamento dei prezzi e dell’economia, seguendo una linea di “pazienza” più volte ribadita da Powell e altri membri del direttivo. Questo atteggiamento attendista è motivato dall’incertezza: gli effetti dei dazi di Trump e di altri fattori sono ancora in evoluzione e la banca centrale preferisce valutare “come queste dinamiche si trasmettono all’economia” prima di intervenire.
Trump però vede questa prudenza come un ostacolo alla crescita e al mercato azionario. Non è la prima volta che un Presidente americano vorrebbe tassi più bassi – storicamente anche Lyndon Johnson e Richard Nixon fecero pressioni simili – ma Trump si è spinto molto oltre i precedenti, rompendo la consuetudine di rispettare pubblicamente l’autonomia della Fed. Dalla primavera 2025 i suoi attacchi verbali a Powell si sono intensificati: lo ha bollato come “un perdente colossale” e persino “un rimbambito”, aggiungendo che la sua “rimozione non può avvenire abbastanza in fretta”. Frasi del genere, inusuali nei rapporti istituzionali, segnalano quanto sia acceso lo scontro. Trump continua a ripetere che Powell sta “sbagliando tutto” e che dovrebbe “fare la cosa giusta” ovvero tagliare immediatamente il costo del denaro.
L’indipendenza della Fed sotto attacco
Le intemperanze verbali di Trump verso Powell sono accompagnate da un’ombra ancora più preoccupante: il presidente ha più volte ventilato l’idea di licenziare Powell prima della scadenza del mandato. Negli Stati Uniti, però, il presidente della Federal Reserve non può essere rimosso a piacimento dal Presidente. Il Federal Reserve Act del 1913 prevede che il capo della banca centrale possa essere destituito solo “for cause” – ovvero per giusta causa dimostrabile, generalmente interpretata come prove di corruzione o grave negligenza. Inoltre, una sentenza della Corte Suprema nel 1935 ha rafforzato questa protezione, stabilendo chiaramente che i vertici delle agenzie indipendenti (come la Fed) non possono essere rimossi senza causa legittima. In oltre un secolo di storia della Fed, infatti, mai un Presidente USA ha silurato il capo della banca centrale per divergenze di politica monetaria.
Consapevole di questi vincoli legali, Trump ha cercato stratagemmi per aggirare l’ostacolo. La Casa Bianca starebbe tentando di costruire un pretesto per invocare la “giusta causa” contro Powell. Negli ultimi tempi Trump e i suoi collaboratori hanno puntato il dito su una questione apparentemente secondaria: la costosa ristrutturazione in corso della sede della Federal Reserve a Washington. Il direttore del budget della Casa Bianca Russell Vought ha denunciato i lavori (dal costo previsto di 2,5 miliardi di dollari) definendoli “sfarzosi” e mal gestiti da Powell. Durante una visita di Trump alla Fed questa settimana, accompagnato dal senatore repubblicano Tim Scott, il Presidente ha pubblicamente contestato Powell sui costi dell’opera, insinuando il sospetto di sprechi o frodi nella gestione del progetto. Powell ha difeso la trasparenza dei lavori spiegando che l’aumento dei costi è dovuto a bonifiche ambientali e ad altre spese impreviste, non certo a lussi ingiustificati.
Secondo David Wilcox, economista ed ex dirigente della Fed, l’amministrazione Trump starebbe proprio “montando una controversia” attorno a questa ristrutturazione per poter accusare Powell di mala gestione e tentare di rimuoverlo “per causa”. Finora però si tratta di un piano teorico: non esiste alcun riscontro concreto di illeciti da parte di Powell, e rimuoverlo forzatamente scatenerebbe una battaglia legale e istituzionale senza precedenti. Persino alcuni alleati di Trump avrebbero espresso dubbi in merito: l’allora consigliere economico Kevin Hassett nel 2018 rassicurò pubblicamente i mercati definendo il presidente della Fed “sicuro al 100%” nel suo incarico, conscio che licenziare Powell avrebbe compromesso irreparabilmente la reputazione della Fed come autorità monetaria indipendente.
Le ripercussioni di queste tensioni non sono rimaste confinate ai palazzi di Washington. Ogni volta che trapela la notizia che Trump potrebbe realmente cacciare Powell, i mercati finanziari reagiscono con nervosismo. In un caso recente, dopo che Trump aveva chiesto a senatori repubblicani se secondo loro avrebbe dovuto “far fuori” Powell, la borsa di New York ha avuto un sussulto: l’indice S&P 500 è sceso bruscamente e il dollaro ha perso valore, salvo poi recuperare quando Trump – spaventato dal contraccolpo – ha smentito di avere intenzioni così drastiche. È emblematico di come l’indipendenza della Fed sia percepita come un pilastro di stabilità: qualsiasi segnale di interferenza politica genera incertezza e timore negli investitori. Come ha scritto Reuters, le minacce di Trump a Powell intaccano un principio cardine del sistema finanziario globale: che le banche centrali siano libere dalle pressioni dei politici.
Perché l’autonomia della Fed è importante
La comunità economica, negli Stati Uniti e non solo, sta osservando con allarme la disputa Trump-Powell. Economisti e analisti finanziari sono in larga maggioranza schierati a difesa dell’indipendenza della Federal Reserve, avvertendo che cedere alle imposizioni politiche di breve termine avrebbe conseguenze negative di lungo periodo. Il timore principale è il ritorno dei fantasmi degli anni ’70: storici e studiosi ricordano che l’ultima volta che la Fed cedette alle pressioni della Casa Bianca, il risultato fu disastroso. All’epoca il presidente Richard Nixon convinse il chairman Arthur Burns a non alzare i tassi prima delle elezioni, e ciò contribuì ad alimentare un’inflazione a doppia cifra nella metà degli anni ’70. Quella scelta politica portò gli Stati Uniti nella spirale della stagflazione (alta inflazione unita a stagnazione economica) e rese necessaria, anni dopo, una dolorosa recessione pilotata dal successore di Burns, Paul Volcker, per ristabilire la stabilità dei prezzi.
Proprio Volcker è ricordato come l’eroe che salvò la credibilità della Fed, pagando però il prezzo di una disoccupazione elevata nei primi anni ’80 per spezzare la spina dell’inflazione. Powell spesso cita Volcker come modello da seguire e ha promesso di non ripetere gli errori di Burns, ovvero di non farsi influenzare da considerazioni politiche quando c’è in gioco la stabilità economica di lungo termine. “Possono dire quello che vogliono. ... Noi faremo ciò che va fatto, senza considerare fattori politici o estranei”, ha dichiarato Powell, ribadendo la sua determinazione a mantenere la barra della Fed orientata solo sui dati economici.
Gli esperti sottolineano che la Fed ha impiegato decenni per costruirsi una reputazione di guardiana dell’inflazione, un capitale di fiducia che non va sprecato. “Ci sono voluti 50 anni per creare credibilità sulla stabilità dei prezzi e basta un attimo per distruggerla”, ha detto Blake Gwinn, responsabile strategie tassi di RBC Capital Markets. Se la banca centrale dovesse piegarsi al volere politico – tagliando i tassi “arbitrariamente o per tornaconto elettorale” – gli investitori inizierebbero a dubitare dell’impegno della Fed contro l’inflazione. Il risultato, spiegano molti economisti, sarebbe paradossale: nel tentativo di ottenere un boom a breve termine, si rischierebbe di innescare un aumento delle aspettative d’inflazione e dei tassi di interesse a lungo termine, facendo salire il costo del denaro proprio ciò che Trump voleva evitare. In altre parole, interferire con l’indipendenza della Fed potrebbe portare a più inflazione e tassi più alti nel futuro, erodendo il potere d’acquisto delle famiglie – esattamente lo scenario che la banca centrale autonoma cerca di prevenire.
Diversi studi accademici confermano questa visione: banche centrali indipendenti tendono a ottenere inflazione più bassa e stabilità macroeconomica. Già negli anni ‘90 l’economista Alberto Alesina e Larry Summers (ex segretario al Tesoro) evidenziarono che quando la politica monetaria è sottratta al controllo diretto dei politici, i risultati in termini di prezzi stabili e crescita sostenibile sono migliori. Il perché è intuitivo: i governi eletti hanno incentivi a breve termine, soprattutto prima delle elezioni, e preferiscono tassi bassi per stimolare l’economia nel qui ed ora. Ma se si esagera con la moneta facile, prima o poi il conto arriva sotto forma di inflazione fuori controllo – come insegnano sia la storia americana degli anni ’70 sia casi contemporanei, ad esempio l’Argentina con la sua cronica iperinflazione alimentata da una banca centrale sotto il tallone della politica.
Gli economisti avvertono anche che un intervento politico sulla Fed minerebbe la fiducia globale nel dollaro e nei titoli di Stato americani. Stephen Kates, analista finanziario, sottolinea che l’indipendenza della Fed è “uno dei pilastri del sistema finanziario americano” e che metterla in dubbio farebbe immediatamente balzare verso l’alto i rendimenti dei Treasury (i titoli di Stato USA) e provocherebbe scossoni in Borsa. Infatti, se gli investitori percepiscono che la banca centrale non è più un arbitro neutrale, chiederanno interessi maggiori per compensare il rischio di future fiammate inflazionistiche o mosse poco prudenti. In sostanza, il paradosso sarebbe che il tentativo di Trump di avere tassi più bassi ora potrebbe tradursi in tassi di mercato più alti domani, danneggiando sia il governo (che pagherebbe più interessi sul debito) sia famiglie e imprese (mutui e prestiti più costosi).
Alla luce di tutto ciò, quasi tutti gli ex governatori della Fed e i principali economisti – di orientamento sia conservatore che progressista – hanno difeso Powell e l’autonomia della banca centrale. Mark Spindel, storico della Federal Reserve, ha dichiarato che “assecondare la politica per un guadagno immediato porta inevitabilmente a dolori maggiori nel lungo periodo”. In definitiva, la lezione che gli esperti traggono da questa vicenda è chiara: compromettere l’indipendenza della banca centrale può dare forse benefici effimeri, ma al prezzo di gravi rischi economici futuri.
Ma che cos’è e cosa fa la Federal Reserve?
La Federal Reserve è la banca centrale degli Stati Uniti, istituita nel 1913 con il compito di garantire la stabilità del sistema finanziario e della moneta americana. In concreto, la Fed determina la politica monetaria degli Stati Uniti decidendo il livello dei tassi di interesse di breve termine e controllando la quantità di moneta in circolazione. L’obiettivo principale di queste manovre è influenzare il costo del denaro nell’economia: ad esempio, alzare i tassi rende più costosi prestiti e mutui, rallentando consumi e investimenti e dunque raffreddando l’inflazione; viceversa, abbassare i tassi stimola credito e spesa, favorendo crescita ma rischiando di surriscaldare i prezzi. Questo delicato equilibrio è il fulcro del mandato della Fed.
Per legge, la particolarità è che la Federal Reserve ha un doppio mandato (dual mandate): deve perseguire due obiettivi simultanei, ovvero mantenere la stabilità dei prezzi (controllare l’inflazione) e la massima occupazione sostenibile. In altre parole, la banca centrale americana è tenuta sia a contenere l’inflazione intorno al 2% annuo nel medio termine, sia a promuovere un livello di occupazione elevato (cioè un basso tasso di disoccupazione). Questi due scopi a volte possono entrare in tensione – ad esempio, combattere l’inflazione con tassi alti può frenare l’economia e il mercato del lavoro – e sta alla Fed bilanciarli nel miglior modo possibile. Questo duplice mandato distingue nettamente la Fed da molte altre banche centrali mondiali (come vedremo per la BCE) e le conferisce un ruolo di gestore sia della stabilità monetaria che della salute economica generale.
Dal punto di vista organizzativo, la Fed è un’istituzione complessa e unica nel suo genere. Al vertice c’è il Board of Governors (Consiglio dei Governatori) a Washington: fino a 7 membri nominati dal Presidente degli Stati Uniti e confermati dal Senato, con mandati lunghi 14 anni sfalsati nel tempo, in modo da attraversare più amministrazioni politiche. Il Presidente della Fed (attualmente Powell) e il Vice Presidente sono scelti tra questi governatori, ma le decisioni sui tassi non spettano a lui da solo. La politica monetaria viene stabilita collegialmente dal Federal Open Market Committee (FOMC), un comitato composto dai 7 governatori di Washington più 5 dei 12 presidenti delle Fed regionali (le banche centrali regionali distribuite sul territorio USA) che votano a rotazione. In totale il FOMC conta 12 membri votanti ad ogni riunione; tuttavia, tutti i 12 presidenti regionali partecipano alle discussioni, anche se solo 5 alla volta esprimono un voto (il presidente della Fed di New York ha un seggio fisso, gli altri 4 voti ruotano annualmente tra gli altri 11 distretti). Questo meccanismo fa sì che le decisioni sui tassi di interesse vengano prese in maniera collegiale e democratica, ponderando le condizioni economiche di tutte le diverse aree del Paese.
Bisogna considerare le deliberazioni del FOMC tendono spesso all’unanimità o comunque a maggioranze schiaccianti. Anche quando all’interno del comitato vi sono opinioni differenti – ad esempio alcuni membri più “colomba” vorrebbero tassi più bassi e altri più “falco” preferirebbero tassi più alti – di solito si cerca un compromesso prima del voto finale. I governatori e i presidenti regionali discutono a porte chiuse e cercano il consenso in modo da presentare una linea unitaria all’esterno. Le spaccature con voti dissenzienti sono relativamente rare e, quando accadono, vengono comunque registrate pubblicamente nei verbali. Questa ricerca del consenso è ritenuta importante anche per proteggere la Fed da attacchi politici: parlare con una voce sola riduce la possibilità che le sue decisioni vengano strumentalizzate. Come ha osservato l’economista Betsey Stevenson, ex consigliera del Dipartimento del Lavoro, mantenere un fronte compatto aiuta a “tenere la Fed al riparo dalla politicizzazione”. In sintesi, la Fed funziona in modo tecnocratico e corale: Powell, pur avendo un forte potere di indirizzo, vale un voto su dodici e deve persuadere gli altri membri con la forza delle argomentazioni e dei dati.
Un altro elemento cruciale è che la Fed opera con un alto grado di indipendenza dal potere politico. Questa indipendenza, come già descritto, è garantita da norme che impediscono interferenze dirette: le riunioni di politica monetaria avvengono senza partecipazione di esponenti dell’esecutivo, e le decisioni sui tassi vengono prese esclusivamente in base alle analisi economiche interne, non su istruzione del governo o del Congresso. La stessa struttura istituzionale – mandati lunghi, sfalsati e non coincidenti con i cicli elettorali – è pensata per isolare i banchieri centrali dalle pressioni dei politici di turno. È importante chiarire che indipendenza non significa assenza di controllo: la Fed deve comunque rendere conto del suo operato al Congresso (ad esempio tramite audizioni periodiche dove Powell e colleghi spiegano le decisioni) e al pubblico, pubblicando verbali e relazioni. Ma le scelte operative quotidiane (tassi, riserve, liquidità) non possono essere dettate dalla Casa Bianca. Questo principio – accettato dai presidenti USA per decenni – è proprio ciò che l’attivismo di Trump sta mettendo alla prova, alimentando il dibattito su fin dove possa spingersi l’autonomia di un ente non eletto in democrazia.
Vista da noi, la querelle tra Trump e Powell risulta singolare anche perché in Europa sarebbe impensabile uno scontro frontale simile tra un leader politico e la Banca Centrale. La Banca Centrale Europea (BCE), che sovrintende alla moneta unica dell’eurozona, condivide con la Fed l’obiettivo della stabilità dei prezzi ma presenta importanti differenze di mandato e governance. In primis, la BCE ha per statuto un mandato unico focalizzato sull’inflazione: la priorità assoluta è mantenere la stabilità dei prezzi (oggi definita come un’inflazione intorno al 2% nel medio termine). Diversamente dagli Stati Uniti, alla BCE non è richiesto di perseguire anche la massima occupazione: certo, una crescita economica solida e la creazione di posti di lavoro sono effetti auspicabili, ma nella gerarchia degli obiettivi la stabilità monetaria viene prima di tutto. Questa differenza di filosofia riflette la storia e la politica dell’area euro, dove paesi come la Germania hanno fortemente voluto una banca centrale à la Bundesbank, concentrata sul controllo dell’inflazione. Negli ultimi anni la BCE ha leggermente ampliato la propria visione (riconoscendo ad esempio l’importanza della stabilità finanziaria e, indirettamente, dell’occupazione), ma formalmente il suo mandato resta molto più ristretto rispetto al dual mandate della Fed.
In conclusione
Lo scontro in atto tra il Presidente degli Stati Uniti e il Presidente della sua banca centrale è un evento eccezionale. Da un lato c’è l’urgenza politica di stimolare l’economia con misure immediate e visibili (tassi più bassi, più credito, più crescita nel breve termine); dall’altro c’è la responsabilità tecnica di garantire stabilità e sostenibilità nel lungo periodo, anche a costo di scelte impopolari nell’immediato. La Federal Reserve, con il suo statuto indipendente e decisionale collegiale, è progettata per resistere ai venti della politica di breve termine – e proprio questa resilienza viene messa alla prova. La speranza degli economisti e dei mercati è che l’istituzione regga alle pressioni, mantenendo ferma la rotta, perché da questo dipende in buona parte la credibilità del sistema finanziario americano (e globale) costruito nell’ultimo secolo.
In un sistema economico sempre più interconnesso, la fiducia nella banca centrale è un bene prezioso: richiede anni per consolidarsi, ma può svanire in un attimo se viene politicizzata. E come ricorda un modo di dire caro ai banchieri centrali, “l’inflazione è come il dentifricio: una volta uscita dal tubetto, rimetterla dentro è molto difficile”. Powell, al pari dei suoi predecessori, sembra determinato a non far uscire troppo dentifricio – anche se questo significa resistere alle ire di chi, alla Casa Bianca, vorrebbe spremere il tubetto a tutti i costi.
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