Israele, Palestina e Ucraina: le sfide di Biden
Nel nostro approfondimento settimanale parliamo del viaggio di Biden in Israele e delle posizioni presidenziali sulla situazione a Gaza. Spazio anche al caos per la nomina del nuovo Speaker
Israele, Palestina e Ucraina: le sfide di Biden
L’aveva fatto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, l’ha fatto adesso quando gli equilibri internazionali sono nuovamente precari a seguito delle crescenti tensioni nella striscia di Gaza. Ancora una volta Joe Biden, di ritorno da un viaggio in Israele, ha scelto di parlare alla nazione per provare a compattare dietro di sé gli Stati Uniti in un momento particolare, in cui da un lato le esigenze globali richiederebbero il massimo dell’unità e dall’altro le divisioni interne fra i partiti stanno rallentando la consueta macchina amministrativa.
Nel corso del suo discorso, Biden ha paragonato le minacce globali provenienti da Hamas e Putin, di tipo diverso ma entrambe accomunate dalla volontà di “annientare completamente una democrazia confinante”. Proprio per questo il presidente ha esortato il Congresso ad approvare un pacchetto di aiuti militari rivolto verso tutte le nazioni alleate degli Stati Uniti attualmente minacciate, ovvero Ucraina, Israele e Taiwan. Di questi fondi, 61,4 miliardi di dollari (di cui almeno $45 miliardi destinati alle necessità militari, mentre 16 all'aiuto economico e umanitario) saranno rivolti al paese europeo.
Una quota importante è prevista anche nei confronti di Israele: Biden ha richiesto infatti 14 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali andrà utilizzata per rafforzare il sistema di difesa Iron Drome. Proprio per quanto riguarda il conflitto con la Palestina, però, il presidente americano ha invitato alla prudenza Netanyahu. Parlando da Tel Aviv, infatti, l’inquilino della Casa Bianca ha sollecitato il suo omologo a non farsi consumare dalla vendetta e non ripetere gli stessi errori compiuti dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre.
Il viaggio di Biden, come sottolineato dalla CNN, è comunque iniziato con un grosso impedimento: la vicenda relativa al bombardamento dell’ospedale di Gaza, le cui responsabilità sono ancora da chiarire in tutte le sfaccettature, ha infatti portato alla cancellazione di un vertice programmato ad Amman con il re giordano Abdullah II, il presidente egiziano e le autorità palestinesi. Sarebbe stata una mossa particolarmente importante per il presidente americano, che sebbene abbia ribadito a più riprese il proprio sostegno ad Israele ha accennato anche alla necessità di garantire alla Palestina una qualche forma di statualità.
Oltre a questo, la Casa Bianca ha chiesto circa 10 miliardi di dollari per esigenze che riguardano anche Gaza, ed in particolar modo i civili bloccati in zone di guerra. Biden ha svolto un incessante lavoro diplomatico per sbloccare gli aiuti umanitari nei confronti dei palestinesi, che da giorni vivevano allo stremo delle forze senza luce, acqua e gas. Oltre a questo, la richiesta di finanziamento prevede anche fondi (nello specifico 4 miliardi di dollari) per aiutare gli alleati degli Stati Uniti nell'Indo-Pacifico a contrastare l'ascesa della Cina.
Non mancano anche questioni interne: al fine di strappare il supporto di parte del Partito Repubblicano (la cui minoranza interna in questi giorni è particolarmente attiva, come vedremo nel prossimo paragrafo) il presidente americano ha chiesto anche lo stanziamento di risorse per la sicurezza al confine meridionale. 6 miliardi di dollari sarebbero così devoluti a nuovi pattugliamenti, intercettazioni relative al traffico di stupefacenti ed un aumento dei giudici chiamati a valutare le procedure di asilo.
Nel complesso, in ogni caso, l’intero discorso di Biden è stato incentrato sulla necessità di convincere dell’importanza di supportare Israele e Ucraina, ìì un'opinione pubblica che nell’ultimo periodo sembra interessata soprattutto a questioni di politica interna. Questo è dimostrato anche dal crescente isolazionismo di una parte del Partito Repubblicano, che recentemente si è opposta a tutti i tentativi di stanziare fondi a favore di paesi alleati.
Il Partito Repubblicano è più diviso che mai
In questo scenario particolarmente delicato per quanto riguarda gli equilibri internazionali, il Congresso americano è paralizzato dalla discussione interna relativa alla scelta dello Speaker chiamato a sostituire Kevin McCarthy, sfiduciato dall’ala ultraconservatrice del suo stesso partito. Come avevamo raccontato nel numero della scorsa settimana, questa stessa fazione aveva affossato la candidatura di Steve Scalise per candidare Jim Jordan, ma nel corso degli ultimi giorni anche le speranze di quest’ultimo si sono velocemente arenate
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Andiamo con ordine. Fin dall’inizio era infatti chiaro che per Jordan ottenere i voti necessari non sarebbe stato facile: vista la risicata maggioranza del Partito Repubblicano, il candidato poteva permettersi di perdere solo una manciata di voti, mentre il numero dei contrari interni al GOP era di circa una ventina di deputati. Questi ultimi, appartenenti all’ala moderata, si sono fin da subito rifiutati di appoggiare una figura che sarebbe stato lo Speaker più estremista quantomeno degli ultimi decenni.
Nel corso di questi giorni il clima interno è stato particolarmente avvelenato: accuse reciproche, incontri tutt’altro che chiarificatori e ben tre tornate di voto in aula non sono servite per sbrogliare la situazione e riportare l’unità. Jordan, dal canto suo, non ha mai manifestato la volontà di poter compiere un passo indietro, con i suoi fedelissimi che hanno osteggiato anche la possibilità (più volte paventata) di estendere pro-tempore i poteri dello Speaker ad interim Patrick McHenry in modo da garantire alla Camera dei Rappresentanti il corretto funzionamento.
Di fronte a questa situazione, lo stesso Partito Repubblicano ha tenuto un voto segreto nella quale è stata definitivamente affossata l’ipotesi Jordan, con 112 deputati che si sono espressi a favore del ritiro della sua candidatura e 86 in maniera contraria. In questo scenario, con i membri del Congresso che sono tornati a casa per il weekend, le prossime ore saranno decisive per capire quali saranno le figure che si faranno avanti nel difficile tentativo di coalizzare dietro di sé l’intero schieramento.
Fin dal momento in cui la candidatura di Jordan è venuta meno diversi esponenti (come August Scott, Kevin Hern e Mike Johnson) hanno avanzato la propria volontà di farsi avanti, ma il nome che è circolato con maggior frequenza è stato quello di Tom Emmers. Quest’ultimo è forte dell’appoggio dell’ex Speaker Kevin McCarthy, ma dovrà comunque vincere le resistenze di una parte del partito.
Sidney Powell si dichiara colpevole e collaborerà all’accusa contro Donald Trump
Sidney Powell, ex legale di Trump, si è dichiarata colpevole per sei capi d'accusa riguardanti il tentativo di ribaltare il risultato delle elezioni del 2020. È stata perciò condannata a sei anni di libertà vigilata, ad una multa di 6.000 dollari ed alla restituzione di 2.700 dollari. È il secondo imputato su 19 del processo intentato da Fani Willis, procuratrice della Contea di Fulton, a dichiararsi colpevole, mentre quasi tutti gli altri, compreso lo stesso Donald Trump, hanno respinto tutte le accuse. Solo Kenneth Chesebro, dopo di lei, ha fatto la stessa mossa e si è detta pronta a testimoniare.
Il giudice, Scott McAfee, ha poi chiarito che la dichiarazione di Powell è irrevocabile. La condanna prevede anche l'obbligo di "testimoniare in modo veritiero" nei prossimi procedimenti, incluso quello principale dove è imputato anche l'ex presidente Donald Trump. Inoltre, dovrà fornire tutta la documentazione richiesta dall'ufficio del procuratore distrettuale. Il patteggiamento prevede anche una lettera formale di scuse ai residenti della Georgia, che il suo avvocato ha comunicato essere già stata spedita.
La decisione di Powell di dichiararsi colpevole è sorprendente anche perché lei è stata in prima linea come sostenitrice delle affermazioni di Trump, portando avanti la cosiddetta teoria cospirativa del "Kraken", il leggendario mostro marino, associato ai presunti brogli alle scorse elezioni.
Le altre notizie della settimana:
Due cittadine americane, madre e figlia, sono state liberate nelle ultime ore da Hamas, dalla quale erano tenute in ostaggio. La notizia è stata festeggiata dal presidente Biden, che ha lodato il lavoro fatto da Israele e Qatar per garantire la buona riuscita dell’operazione.
Il prossimo dibattito del Partito Repubblicano in vista delle elezioni presidenziali che si terranno nel 2024 è stato programmato per il prossimo 8 novembre e sarà ospitato da NBC News. Come i precedenti, però, anche quest’ultimo non dovrebbe avere fra i suoi protagonisti Donald Trump, che fino ad ora si è sempre rifiutato di misurarsi con i suoi sfidanti.
La scelta, stando ai sondaggi, sembra pagare: Trump, infatti, è saldamente il favorito per ottenere la nomination e non sta risentendo della sua assenza, anche in virtù delle performance non eccellenti fatte dagli altri candidati.
L'amministrazione Biden ha raggiunto un’intesa con i migranti le cui famiglie sono state separate al confine sud-occidentale tra il 2017 e il 2021, durante la presidenza di Donald Trump.
L'accordo, che deve essere approvato dal giudice distrettuale statunitense Dana Sabraw, per la Casa Bianca ha il duplice scopo di accelerare i ricongiungimenti familiari e impedire a qualsiasi futura amministrazione di riproporre la politica dell'era Trump.
Il giudice Arthur Engoron, che nello stato di New York sta presiedendo il processo nei confronti di Donald Trump per frode fiscale, ha minacciato di incarcerare l’ex presidente per aver violato "palesemente" un ordine di silenzio, che gli imponeva di rimuovere dai social media un post che prendeva in giro il cancelliere dello stesso giudice.